Vin blouge | Qualcosa di cui forse non sentivamo il bisogno (o forse sì)

Vin blouge | Qualcosa di cui forse non sentivamo il bisogno (o forse sì)

di Jacopo Manni

Dare un nome alle cose, da sempre, per l’uomo è uno dei primi atti di comprensione del mondo.
E chi comprende il mondo lo domina e lo cavalca.
Non è un caso che già ad Adamo nella Genesi venga affidato il compito di dare un nome a tutti gli animali. Quello che potremmo chiamare il primo atto di naming della Storia non era solo un esercizio di autorità, ma soprattutto di riconoscimento e comprensione della natura.

Ma veniamo al punto. Avete mai sentito parlare di vini blouge?

Mischiare vini e uve bianche e rosse è una pratica comunissima, presente e praticata in maniera sistemica sia storicamente che geograficamente in tutti i luoghi di produzione del vino nel Mondo. Tuttavia, tale pratica, all’interno delle nostre convenzioni “classiche”, “tradizionali” e immaginifiche di come intendiamo, o meglio, ci raccontiamo il vino, a noi sembra un enorme tabù, o addirittura una pratica sacrilega. Racconta a tal proposito una leggenda metropolitana, che il bere consecutivo di vini bianchi e rossi sia dannosissimo per la salute umana.

Facendo, però, rapido ricorso alle consuetudini produttive del vino e dei suoi disciplinari troviamo molteplici e variegate casistiche che vedono la possibilità di mischiare sia i vini bianchi e rossi – Champagne su tutti – sia i mosti e le uve bianche e rosse insieme, e qui ci riferiamo ad esempio a molti dei rosati toscani o provenzali che siano.

Quante volte abbiamo sentito dire che i francesi sono i più grandi venditori di vino al mondo, campioni di marketing e di capacità comunicative sempre troppo avanti rispetto a noi italiani, e a tutto il resto del mondo vino? Ecco, se ancora non avete la più pallida idea di cosa siano i vin blouge sappiate che… oops lo hanno fatto ancora: proprio in Francia è esplosa questa nuova moda e “etichetta” dalla crasi di blanc+rouge, ovvero vin blouge. Nome figo, allo stesso tempo facile e di grande engagement, per appellare una cosa che tutti nel vino fanno da secoli, se non da millenni: il vino rosa, anche detto rosato o rosè se volete.

Più precisamente, il termine “blouge” è un’abbreviazione, come dicevamo,  che unisce le parole francesi “blanc” (bianco) e “rouge” (rosso), e si riferisce a una particolare tipologia di vino ottenuta co-fermentando uve rosse e bianche insieme. Questo metodo di vinificazione, che utilizza entrambi i tipi di uve è solo uno dei molti metodi di produzione del vino rosa, forse quello meno praticato… almeno finora.

La novità dei vin blouge, nata nel Bordelais, una delle regioni del mondo dove praticamente ci si cresce a pane e assemblaggio, non sta, quindi, tanto nella tecnica, che come abbiamo visto non ha nulla di innovativo, quanto nell’aver rivendicato con forza e aver dato un nome a questo assemblaggio addirittura commercializzato come vino generico, ossia Vin de France.

Per capire meglio, facciamo un confronto con il nostro paese. Da noi tale tecnica esiste ma non solo non viene rivendicata, viene anche taciuta e omessa dai produttori e dai consorzi perché nell’immaginario “canonico”, e pieno di pregiudizi – errati a mio parere – il consumatore medio vedrebbe tale pratica non come un plus ma più come una sorta di sofisticazione alimentare.

Alcuni produttori francesi, invece, pare si siano accorti che esiste una tipologia di consumatori che non guarda più al vino con gli occhi dei padri, e non ragiona più evidentemente in maniera rituale con i classici schemi figli delle denominazioni. Il vino si sta desacralizzando, non si vive più di sola grandeur. E non è forse un caso che questa piccola rivoluzione nasca con la tipologia più meticcia, fluida e libera del vino: il vino rosa.

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I vini rosa esistono da sempre, forse sono addirittura l’archetipo del vino moderno ma non hanno mai veramente sfondato la soglia dell’ottimo e dell’eccellenza, quantomeno in Italia. Il vino rosa ha subito negli ultimi secoli la fama e la nomea di vino di rincalzo, di classe e nobiltà inferiore, se non di vero e proprio vinello. Ecco quindi che serviva forse, come viene chiamato nel marketing, un rebranding, una svolta nel nome e non nel prodotto, per dare nuova verve e nuova spinta ad un prodotto dal grande potenziale ancora inespresso.

Ed ancora una volta i francesi, ahimé, ci insegnano quanto dare il giusto nome alle cose sia fondamentale nel commercio e nel marketing, perché ciò facilita la comunicazione e la comprensione dei prodotti da parte dei consumatori. Il nome giusto è uno strumento essenziale non solo per l’organizzazione e la comprensione del fenomeno ma anche per la costruzione del valore percepito e l’efficacia del marketing nel tempo. Creare e poi assegnare ad un prodotto il giusto nome significa identificazione, valore, memorabilità e connessione emotiva.

Siamo sicuri che il rebranding di questa tipologia di rosato arriverà anche in Italia?
Ovviamente non resta che aspettare, ma non stupitevi se tra qualche mese nel vostro nuovo bar a vin natural-chic del quartiere vi proporranno un ottimo e roseggiante vin blouge.

[Foto di copertina: creata con AI Dall.E 2024; foto interna:  iColorpalette]

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Jacopo Manni

Laureato in Storia Medievale è PhD student in geografia a Tor Vergata con una tesi sulla valorizzazione vitivinicola del Vulcano Laziale. Studia i vini vulcanici e le geografie del vino. Ha un suo podcast sul futuro del cibo. Ha pubblicato libri di cucina per Terre di Mezzo e Armando Curcio e ha scritto podcast sul vino e sul cibo per Chora Media tra i quali Vino Vicino. Vive di vino e studia le sue geografie.

7 Commenti

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Nic Marsél

circa 3 mesi fa - Link

Marketing o meno, la trovo cosa buona e giusta. Sarebbe un piccolo passo avanti nell'informare COME quel vino rosa è stato ottenuto, A patto che vi sia certificazione. Come scrivevo nel post sul libro dei Cataldi Madonna, la qualità intrinseca di un vino rosa dipende da come e perché è stato prodotto. Il futuro del vino rosa passa per la chiarezza con la quale saremo in grado di comunicarne il metodo produttivo. Al momento la confusione impera ed è certificata all’interno dei disciplinari.

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Giuseppe

circa 3 mesi fa - Link

"Per favore, un calice di biancosso... bianrosso... biarosso...." "Scusi?" "MI DIA UN CAZZO DI ROSATO, DIAMINE! In francese, suona decisamente meglio.

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Lanegano

circa 3 mesi fa - Link

Decisamente :)

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Sisto

circa 3 mesi fa - Link

"Da noi tale tecnica (omissis) non come un plus ma più come una sorta di sofisticazione alimentare". Beh: come facevo notare nel precedente articolo sui rosati (abbiate pazienza ma-per ora-l'art, 8 reg Ue 934/2019" così li denomina), sino a quando "esperti e amatori" si formeranno presso i corsi di coloro i quali (per statuto) servono il vino, è sicuro che sia così. Colgo l'occasione di ricordare che TANTISSIMO rosato è il frutto di taglio di vini (o mosti o uve) di colore diverso. Nella UE non si può fare solo se la miscela è destinata a vino fermo e il taglio è eseguito con vini generici. Altro che "In Italia è vietato produrre rosato miscelando bianco con rosso". È vero il contrario. PS Esiste anche la denominazione "Vino d'Italia" (non è che esiste solo in Francia), significa (banalmente) vino generico prodotto nello stato membro X.

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Nelle Nuvole

circa 3 mesi fa - Link

Sempre bello è leggere la prosa chiara e "umanista" di Jacopo Manni; post adattissimo a questo periodo, rinfrescante e leggero. Peccato poi leggere un commento come quello che ha scritto Nic Marsel sopra [ non togliendo nulla alla sua simpatia e sua intelligenza] ; sarà dovuto al mio appartenere a quella generazione etichettata come "ok boomer" leggasi coglione/ avariato/a, ma il mio dissenso è forte e chiaro. Quando leggo che "la qualità intrinseca di un vino rosa da come e perché è stato prodotto" mi si allungano i canini. Che ingenua, io ho sempre pensato che la qualità intrinseca di un vino rosa [perché non bianco, rosso, o persino orange?] dipendesse da altri fattori tipo a) luogo di produzione vocato a viti e non a mais o grano. b) andamento climatico favorevole a far sì che l'uva portata in cantina non sia fracica, surmatura o verde, o colpita da una qualsivoglia muffa, ecc. c) vinificazione rispettosa dei vari processi e non sottomessa all'ego ipertrofico del produttore/enologo. Forse tutto ciò con uno sforzo erculeo potrebbe assimilarsi sotto il "come", ok ci sta. Ma perché il "perché?". Va bene il desiderio di trasparenza, credeteci pure, ma santoddiobenedetto in cielo e in terra, che senso ha chiedersi sempre "perché?" Mo' tutti quelli che si azzardano a produrre un vino nuovo, più originale dei precedenti, devono giustificare davanti a un Tribunale di forse coonsumatori - sicuramente criticatori il perché hanno prodotto un certo vino. Agatha Christie, Dashill Hammett, Gialuca Carofiglio pensateci voi.

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Nic Marsél

circa 3 mesi fa - Link

Fai la brava ;-) Sulla qualità i presupposti che citi si danno per scontati per qualsiasi tipo di vino ma in particolare per il vino rosa sarebbe auspicabile sapere (per esempio) se si tratta di un taglio di vini biancorossi (leggi commento di Sisto) o di un salasso, giusto per intenderci. Poi il "perchè" non va certo certificato o sbandierato ma è ovvio che un vino fatto giusto per aggiungere un rosa (che oggi è di moda) al catalogo o uno scarto derivato dalla concentrazione di un rosso non serve a dare lustro alla tipologia. E poi il perchè dovrebbe essere parte fondamentale della comunicazione: se un produttore non sa spiegare "perché" ha fatto un determinato vino allora vuol dire che solo un mestierante, magari eccellente, ma pur sempre un mestierante. Angelo Peretti, riprendendo un intervento Robert Joseph l'ha spiegato egregiamente in un suo post: "il cammino incomincia interrogando se stessi". Vale per qualsiasi attività che si intende intraprendere, perchè non dovrebbe valere per il vino?

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Sisto

circa 3 mesi fa - Link

Sottoscrivo. E non posso non attestare nuovamente che, more solito, quando trattasi di prodotto alimentare, soprattutto bevanda alcolica, in particolare vino, c'è sovente una certa tradizionale ritrosia a informare compiutamente il consumatore (a volte financo il cliente) su esaustive caratteristiche prodotto e dettagliate modalità/fasi ciclo produttivo. Non si capisce perché di un'app per Android o di un rubinetto o di una poltrona si possa sapere tutto e di una sostanza (molto tossica per giunta) che si riversa nell'intestino il proprietario del detto intestino (e di tutti gli altri organi) non possa sapere come sia stata realizzata (io però una risposta ce l'ho...).

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