Quattro vini fuori dal tempo e dentro la (mia) storia
di Gianluca RossettiEsposte ai ricami della polvere, accecate dal sole fatto a strisce tra le stecche delle veneziane.
Il mio primo incontro con una bottiglia lascia tracce nei testi di paleontologia: T-rex di vetro rinsecchiti a bordo mensola, ingabbiati da un merletto a punto croce. Mi incuriosivano tremendamente le bottiglie, senza ragione. Sapevo solo del divieto assoluto per i bambini di toccarle perché “sono un caro ricordo, “ti cadono addosso”, “fanno male”. E in effetti dovevano far male per davvero se venivano riposte così in alto o sotto chiave, lasciate con tanta cura fuori portata.
Con i parenti sporadicamente impegnati altrove capitava che mi arrampicassi, attirato dalle etichette e dai divieti, un paio di volte riuscendo perfino a sturare il collo di qualcosa (liquore, amaro?), coperto di croste zuccherose, per infilarci il naso e morirne. “Non ne berrò mai. Mai!”, ripetevo prima di svenire.
Oggi perdo i sensi molto più raramente, va detto. Ma quando si tratta di vino i punti esclamativi mi capita di usarli ancora.
Oslavje 2010 – Radikon
Il vecchio e il nuovo, il quarto colore, il sale, i balsami, la persistenza. Sorso che è cassa di risonanza, piano armonico perennemente scosso.
Lunar 2013 – Movia
La sfida del colore. Frutto, roccia, camomilla, fieno e lentezza. Baricentro che si sposta continuamente non dando confidenza. Eppure mi sento in equilibrio.
Pico 2015 – Maule
Oro. Spigoli: miele sì ma di castagno, fiori gialli secchi, yogurt, menta, pepe bianco. Sorso veloce, una corsa nel bosco: quando ti fermi i graffi dei rovi si perdono in un sorriso.
Ribolla 2008 – Gravner
Come osservare la campagna senese dalla Torre del Mangia. Immerso nella meraviglia che hai vicino e stordito da quella in lontananza. Un vino che mi pare un punto esclamativo da qualunque distanza lo si osservi.
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