Lettera a me stesso da giovane | Piero Riccardi e il Cesanese di Olevano Romano

Lettera a me stesso da giovane | Piero Riccardi e il Cesanese di Olevano Romano

di Jacopo Manni

La comunicazione – del cibo, del vino e non solo – viaggia veloce e spesso il tempo della riflessione è soggiogato da quello della condivisione rapida e superficiale. Si lancia il sasso nello stagno e si aspetta solo il ritorno di qualche piccola onda, spesso maligna e rude. Qui vogliamo provare a costruire uno spazio di pensiero dal riverbero più lungo di un’onda nello stagno che rapidamente scompare.
Esiste un bellissimo progetto editoriale di un magazine sportivo statunitense al quale mi sono ispirato: Letter to my younger self sul The Players Tribune. La rivista chiede ad atleti famosissimi di tutto il mondo – ormai ritiratisi dalle competizioni – di scrivere una lettera a loro stessi nel momento esatto in cui esordirono nelle rispettive carriere. Per intendersi, gente del calibro di Gigi Buffon, Kobe Bryant, Pete Sampras e tantissimi altri.

Con Lettera a me stesso da giovane ho pensato di fare la stessa cosa però coinvolgendo grandi vignaioli, gente del vino di cui spesso ci appassioniamo e vogliamo sapere più cose possibile, come fossero vere e proprie star. Sono andato alla ricerca del turning point, come lo chiamano in inglese, il momento topico e decisivo nella vita di un essere umano. Il momento degli inizi, il momento degli esordi di una giovane vita che sta anche inconsapevolmente virando verso lidi che solo nel presente poi riusciamo a decifrare. Spesso, non sempre.

Si parla troppo di vino – sentiamo ripetere spesso – ma sempre troppo poco di comunità, di politica, identità e storia. Della storia rurale e sociale del nostro paese. Con Lettera a me stesso da giovane sono andato alla ricerca di pagine non ancora scritte, o scritte solo parzialmente.

Buona lettura e buon viaggio.

Jacopo Manni


Collepazzo, Olevano Romano, novembre 2023

Caro Piero,

ti scrivo questa mia dal 2023 mentre stai entrando nell’estate del 1977. Sono 23 gli anni che separano il me stesso di oggi dal 2000 e tu sei a 23 anni dal 2000. E hai 23 anni essendo nato nel 1954.
Coincidenze, è chiaro, ma le coincidenze numeriche a volte hanno la capacità di spiazzarci, inattese eclissi che per un attimo sospendono l’ordine del tempo e con la loro ingenuità e indifendibilità logica ci fanno quasi tenerezza.
Dunque, ho pensato di scriverti mentre stai entrando in questa seconda metà del 1977 perché proprio ora ti stanno per accadere un paio di cose che ti indicheranno la via. Anzi, un paio di vie, che percorrerai in equilibrio, a volte saltellando da una all’altra quando correranno vicine, a volte smarrendone una quando le due si separeranno, per ritrovarla più avanti quando di nuovo si incroceranno. Insomma, in questo scorcio di 1977 stai per firmare la tua prima regia televisiva – una ripresa del sassofonista jazz Phill Woods che suonerà allo Sferisterio di Macerata – e contemporaneamente farai il tuo primo vino.

Diciamo subito che la prima via, quella di filmare, che durerà alcuni decenni, ad un certo punto si interromperà, almeno apparentemente. La seconda, quella di fare il vino, continuerà ancora oggi, 2023, dal momento che con Lorella Reale, da cui avrai due figli che si aggiungeranno a una figlia precedente, ne farete una scelta di vita e di lavoro, fondando a Collepazzo un azienda biologica e biodinamica.

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Vigneto di Collepazzo, Olevano Romano

Ma veniamo al motivo di questa mia. Non voglio e non potrei darti alcun consiglio.

Nulla che cambierà il corso della storia, della tua storia che è anche la mia. Tutto per me oggi è già accaduto, e nulla delle mie considerazioni potrebbero cambiare di una virgola le tue azioni future. Una cosa però posso e voglio dirti subito: non ho nulla da rimproverarti, da rinnegare.
Sono sereno per tutto quello che hai fatto fino al 1977 e che farai per arrivare a me. Errori compresi.
Ne farai, ma gli errori fanno parte del gioco che chiamiamo vita. Puoi farti tutte le domande che vuoi, a volte sarai tentato di fartene anche di complesse, ma stai già imparando che la domanda più complessa è sempre la più semplice, la più scarna.
Solo così, nella vita quotidiana troverai la risposta, che è la via. Ma se cercherai di studiarla, la via, te ne allontanerai.

Ci saranno due luoghi – così lontani e così simili, dove andrai più volte e di cui più volte ne filmerai storie e persone – e un pezzetto di terra che ti insegneranno che se vuoi seguire la via senza perderti devi metterti nella stessa libertà che ha il cielo. I due luoghi sono Napoli e l’India – non certo l’India di oggi, ma quella che stai per incontrare, il cui odore porterai dentro di te insieme all’incontro con Rajneesh e le migliaia di giovani da tutto il mondo che credevano che un mondo diverso fosse possibile – il pezzetto di terra, sarà il tuo vigneto a Collepazzo.

Cosa c’entra fare vino, col fare cinema, televisione, inchieste, documentari?
Credo che in questo 1977 tu neppure ti ponga la domanda. Anche perché sei preso da questa febbre di filmare, di girare il mondo, di entrare dentro storie, a volte dolorose a volte illuminanti. Filmare significa raccontare la storia degli altri, fare il vino significa raccontare una tua storia.
Detto così, fila. Ma oggi, da questo 2023, potrei dirti il contrario, ovvero che filmare significa raccontare la tua storia attraverso quella di altri e fare il vino è raccontare la storia di altri, ad esempio la storia di innumerevoli e sconosciuti vignaioli che per undicimila anni di storia del vino lo hanno fatto o hanno selezionato quella vite che tu ora stai coltivando e che lascerai ad altri dopo di te. In entrambi i casi sai che devi metterti in gioco perché quello che si racconta è sempre la storia collettiva, di noi tutti. E non puoi barare.
La responsabilità è grande, in tutti e due i casi – almeno se vuoi fare le cose fatte per bene, con un senso.
La responsabilità di raccontare la storia non di un gruppo, di una patria, di un ego che sono entità chiuse dentro confini, inventati in contrapposizione ad altri gruppi, patrie, ego, con altri confini, inventati per fare le guerre, ma di unico popolo che sono tutte le donne e gli uomini che oggi vivono, che sono vissuti e che nasceranno. E che hanno a loro volta la responsabilità enorme di comprendere – ormai il più in fretta possibile, che non c’è più molto tempo, visto il modo folle con cui gli umani trattano il pianeta e tutti i viventi e non viventi che lo abitano – che quel pollo o bue che gli umani allevano nei loro allevamenti per ingrassarlo e ucciderlo per cibarsene è nient’altro che uno schiavo e che ogni volta che girano la chiave della loro auto non fanno che ipotecare il futuro di figli e nipoti. Tutto si lega: nel loro essere pubblico e privato. Ma questo è un concetto che è passato di moda in fretta, inghiottito dal vorace stomaco del consumismo di mercato.

 

Piero, intorno al '68

Piero Riccardi intorno al ’68

Una volta, nella terminologia di sinistra questo senso di essere un’unica umanità, in cammino tutti insieme verso un avvenire senza ingiustizie, senza guerre e oppressioni, si chiamava internazionalismo. Quello che imparasti a conoscere nei tuoi 15 anni quella sera di novembre 1969, nella grande manifestazione che segnò l’inizio del ‘68 a Roma, un grande corteo di studenti indetto per chiedere la liberazione del compagno greco Alessandro Panagulis, condannato a morte dalla dittatura dei colonnelli. Quello che imparasti a sentire con il tuo corpo quando, poco prima di arrivare davanti alla sede dell’ambasciata greca, nel grande viale Liegi, i reparti della Celere vi caricarono e attorno a te incrociavi come in un brutto sogno i volti spaccati e insaguinati di ragazzi e ragazze che più che sofferenti avevano l’espressione spaurita di chi sembrava chiedere perché, perché quella stupida violenza contro chi stava chiedendo di non impiccare un ragazzo come te, come loro, colpevole solo di lottare per la libertà e la giustizia del suo paese? Peace and love.

Ma peace and love viene presto denigrato. L’accusa è di ingenuità, ingenua la pace, ingenuo amare, perché ti spiegano che la realtà era un’altra – ma come mai per il potere la realtà è sempre altra fino a svuotarla di senso? – e l’alternativa realistica a essere ingenui significava dover credere nella guerra, credere che da-che-mondo-è-mondo l’uomo deve fare la guerra, inventandosi la storia del lupo, della sua natura e che l’uomo in fondo non era che lupo con gli altri uomini. L’internazionalismo oggi per sopravvivere deve mimetizzarsi. Cancellati sia il sole che l’avvenire. Anzi, di sole, svuotato di senso, ce n’è troppo, intrappolato a surriscaldare Terra, imprigionato dentro una bolla spessa e invisibile di gas.

Gas serra lo hanno chiamato e dentro la serra intrappolati non ci sono solo gli umani, ma anche piante e animali. E il ghiaccio dei Poli che si scioglie, l’acqua delle alluvioni, il vento caldo della siccità.

Te ne accorgerai tu stesso con la tua vigna a Collepazzo: se nel tuo 1977 stai per raccogliere l’uva ai primi di novembre, nel 2022 la raccoglierai il 10 settembre. Due mesi prima!

Poco a poco, delle due vie che ti prepari a percorrere, quella del vino lascerà indietro quella di filmare, ma in questo 1977 non puoi certo immaginarlo. Oggi vuoi solo imparare a farlo, il vino. Te lo insegnano due vecchi vignaioli.

Il vino è il Cesanese. Di Olevano Romano. Ti accorgerai che è un osso duro in campo, ma mai quanto in cantina, con le sue basse acidità, il colore che cambia da stagione a stagione. Insomma dovrai imparare a cogliere il giusto punto di maturazione.

Se vendemmierai troppo presto, per avere più acidità, perderai i suoi profumi di visciola, se lo raccoglierai troppo tardi non solo rischi di giocarti tutta l’acidità ma la visciola diventerà confettura. Insomma, dovrai imparare assaggiando e assaggiando, ma anche l’occhio e l’olfatto ti guideranno, se saprai affinarli. Come ti insegneranno, lo farai fermentare nelle botti di castagno dei boschi che vedi dalla finestra e che i bottai del tuo paese – nel 1977 ce ne sono tre, oggi più nessuno – ti hanno fatto su misura. Il mosto fermenterà spontaneamente e l’unica cosa estranea all’uva saranno gli zolfini da bruciare nella botte per disinfettarla. Il vino si fa così da undicimila anni, eppure, tra poco dovrai dire che il vino che tu fai si chiama vino naturale.

Certo, la parola naturale è complicata, perché bisognerebbe sapere esattamente cos’è la natura e la natura da Aristotele in poi è stata piegata ideologicamente, dai filosofi (non tutti), dal potere (sempre), dalla scienza (non tutta) a rappresentare un fuori rispetto agli umani. Oggi il pianeta ci sta urlando che non c’è un fuori rispetto a noi, agli umani.

Ma torno al nostro vino, caro me stesso del 1977. È appunto sul finire degli anni ‘70, inizio ‘80, che alcuni vignaioli francesi capiranno che la strada imboccata dal vino degli enologi sarebbe stata pericolosa e avrebbe ben presto ucciso il vino, la sua storia, il suo essere metafora di qualcosa di più grande che una semplice bevanda, come avevano intuito subito i popoli dell’Asia Minore che per la prima volta lo avevano scoperto. E dopo di loro i Fenici, gli Egizi, i Greci, i Romani e l’Europa stessa. Il Mediterraneo, la sua storia, è la storia del vino.

piero, impianto vigneto 2010

Piero Riccardi impianta il vigneto nel 2010

Chi oggi dice, denigrandolo, che il vino naturale è una moda, semplicemente ribalta la realtà. Ideologicamente. Per diecimilanovecentocinquanta anni il vino si è fatto con fermentazioni spontanee, solo negli ultimi cinquanta anni è successo qualcosa. Certo, molti vignaioli che fanno vino naturale ce la mettono tutta a confondere le cose perché essi stessi sono confusi quando dicono “io non faccio nulla, lascio fare alla natura che sa meglio di me come si fa il vino!”.

Non è la natura personificata o magicizzata, madre o matrigna che fa il vino, il vino lo fa sempre il vignaiolo, anche se non usa lieviti commerciali. La verità è che è molto più difficile fare un vino con fermentazioni spontanee, senza filtrazioni, sterilizzazioni e correzioni fisiche o chimiche. Molto più difficile per una quantità di scelte e decisioni che partono dalla vigna, partono dal capire che sei vignaiolo non perché hai cinque o seimila viti per ettaro, ma perché stai coltivando un pezzetto di terra che è il pianeta stesso, che prima di tutto stai coltivando la terra che non è un materiale inerte, che stai coltivando tonnellate di microrganismi – funghi batteri, collemboli, insetti che vivono dentro la terra, sotto i tuoi piedi quando la calpesti, e vivono in simbiosi con le tue viti.

Oggi, nel 2023 lo chiamiamo microbioma, è il microbioma della terra, esattamente come quello che hai nel tuo intestino, miliardi di batteri letteralmente incorporati in simbiosi con il tuo corpo senza i quali né tu né le tue viti potreste sopravvivere. E se quando cammini tra i filari di Collepazzo tu respiri l’ossigeno prodotto dalle tue viti, le tue viti hanno bisogno del carbonio che il tuo corpo espelle.

Ma pensa caro Piero, che queste cose le stiamo scoprendo ora, o meglio, forse gli umani, anticamente, tanti ma tanti anni fa, prima di diventare i più pericolosi predatori del pianeta, lo sapevano per istinto e lo raccontavano attraverso i miti. Ma con questo non credo affatto che ci sia stata un’età dell’oro, solo che forse qualcosa oggi la stiamo sbagliando. Dovremmo solo poterci correggere. Volendolo.

E dopo la vigna c’è la cantina, dove è molto più difficile fare un vino solo con la tua uva piuttosto che usare lieviti di laboratorio, magari modificati geneticamente, enzimi, criomacerazioni per tirare fuori sentori e profumi stabiliti a tavolino dallo stregone enologo. Pensa che oggi, nel 2023, siamo arrivati al punto che ci sono delle marche di lieviti commerciali che pubblicizzano il loro lievito dicendo che se la tua uva non ha carattere e personalità – e oggi, in molti vigneti trattati chimicamente, con la terra che sembra polvere del deserto, l’uva letteralmente non ha più nulla – il loro lievito gli conferirà profumi di frutta tropicale e spezie. Vini buoni per le scuole di sommellerie nate come funghi. Vini buoni per le commissioni delle doc, svuotate ormai di senso da vini che nulla hanno a che vedere con la terra da cui provengono. Vini buoni per certi esperti di vini, quelli che dicono che il vino naturale è una moda. Certo, alcuni vini naturali, di improvvisati vignaioli sono talmente fatti male che non si possono semplicemente chiamare vino. Il vino naturale deve essere buono e se il vino naturale è buono, è infinitamente più buono di qualsiasi bevanda costruita in laboratorio da uno stregone enologo.

Il contrario di vino naturale non è vino artificiale. Tutti i vini naturali sono opera del vignaiolo, della sua conoscenza, della sua esperienza, del suo talento, della sua creatività. Nei vini costruiti non c’è alcuna creatività, né talento, solo standardizzazione e protocolli seriali spacciati per scienza e modernità.

Piero, non bisogna avere paura della scienza e della tecnologia, ma del suo uso al servizio del potere e di un modello economico da razzia che ci sta portando
all’estinzione. E tutto questo non sono io che lo sto insegnando io a te, ma sei tu che lo hai insegnato al me di oggi. Con le tue scelte.
Ti ringrazio.

PS. Un’ultima considerazione.
Tra dieci anni esatti, nel 1987, ti ammalerai di un tumore. Dopo l’operazione chirurgica, a Roma, ti diranno che le cellule tumorali sono in metastasi per tutto il corpo. Malgrado il tuo comprensibile panico iniziale – ma se sono qui a raccontartelo ovviamente ti sei salvato – comincerai, come per quella tua implacabile maniera di affrontare un’inchiesta giornalistica, a cercare di capire quale sarebbe potuta essere la via da percorrere. Così, dopo aver vagato per ospedali e medici, approderai a Parigi e ti affiderai a un medico fantastico. Un signore di mezza età franco-tunisino, Marcel Hayat, che subito ha capito la tua forza vitale e tu la sua etica pratica e ti calcolerà una chemioterapia sperimentale con dosi che oggi mi dicono avrebbero steso un cavallo. Ma avrà ragione.
Non è questo il punto, però. Il fatto è, che quando ogni mese tornerai a Parigi per sottoporti al nuovo ciclo di chemio durante il quale per una settimana intera vomiterai poco a poco tutto il tuo tumore, la sera prima di entrare in ospedale, via via sempre più rinsecchito e senza più un capello, te ne andrai nel tuo ristorante preferito, Le petit zinc dei Freres Leirac, ti farai aprire un plateau di Belòn della Normandia, ordinerai una bottiglia di Gamay (si lo sappiamo, molti sapienti di vino diranno che l’abbinamento non va bene, troppa acidità, ma per te sarà perfetto con tutto quel cisplatino in corpo) e dedicherai quella cena al tuo corpo e alla tua mente. Il permesso per fare quelle cene te lo darà proprio Monsieur Hayat. Pensavi che avresti ricevuto un rifiuto (è difficile immaginare fare altrettanto da uno dei cupi medici italiani che avevi incontrato nel tuo pellegrinaggio di malato forse terminale fare) e invece gli occhi gli si illumineranno e con quel suo fare cordiale e sincero risponderà “Cher Pierrò, ma certò, huitres e vinò ti cureranno plus del mio cisplatinum!”. Quelle parole di monsieur Hayat ti risuoneranno spesso dentro e ti illumineranno sicure per le tue vie. Certo, monsieur Hayat sapeva che senza il suo cisplatino non avresti avuto alcuna chance di uccidere il tuo tumore – e anche tu lo sapevi – ma quello che forse ti voleva dire, monsieur Hayat, è che chissà se il cisplatino da solo sarebbe bastato, se non avrebbe avuto bisogno di entrare in risonanza con quel Gamay, se il tuo corpo insomma non avrebbe avuto bisogno contemporaneamente di quel calice di vino, della sua energia vitale, profonda, direi cosmica. Per questo il vino non va ridotto a essere come quella pozione di cisplatino. Lasciamo che il vino sia quell’energia vitale, energia della terra, di quella natura di cui anche il nostro corpo e la nostra mente sono fatti. Senza barare. È sicuramente un vino più complicato da fare. Più complicato farlo bene. Ma ne vale la pena, perché quando il vino naturale è buono, è enormemente più buono di qualsiasi cis-vino. Il nostro corpo lo sa e se la ascoltiamo, anche la nostra mente ce lo dice.

Un caro saluto dal tuo Collepazzo, anche da parte di Lorella, Tullia, Curzio e Cassia.

Piero

[Tutte le  foto sono state gentilmente fornite da Piero Riccardi]


Per chi si fosse perso la altre lettere:

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Jacopo Manni

Laureato in Storia Medievale è PhD student in geografia a Tor Vergata con una tesi sulla valorizzazione vitivinicola del Vulcano Laziale. Studia i vini vulcanici e le geografie del vino. Ha un suo podcast sul futuro del cibo. Ha pubblicato libri di cucina per Terre di Mezzo e Armando Curcio e ha scritto podcast sul vino e sul cibo per Chora Media tra i quali Vino Vicino. Vive di vino e studia le sue geografie.

5 Commenti

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Giuseppe Costantino

circa 9 mesi fa - Link

Sei semplicemente una bella persona. E appena possibile vedrò di procurarmi il tuo vino.

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franco

circa 9 mesi fa - Link

di gran lunga la più bella lettera della serie... grazie!

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Carolaincats

circa 9 mesi fa - Link

Chapeau.

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Lanegano

circa 9 mesi fa - Link

Davvero bello.

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Lietta Benedetti

circa 9 mesi fa - Link

Troppo bello

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