La perfezione del whisky del Sol Levante
di Thomas PennazziVenerdì 2 febbraio il Whisky Club Italia, sezione di Milano, ha portato in scena una degustazione di whisky del Giappone: relatore Alessandro Coggi, appassionato e veterano degli alcolici di queste contrade; si beve tanto alcool in Estremo Oriente, infatti, non solo malti.
Il whisky in Giappone nasce quasi cent’anni fa, per un caso bizzarro: il rampollo di una dinastia di produttori di sake, che è arte difficile e trasmessa da una generazione all’altra, si era incapricciato del whisky. Per continuare i suoi studi di chimica, Masataka Taketsuru, questo il nome del padre del whisky dagli occhi a mandorla, si imbarcò per la Scozia nel 1918; oltre a studiare all’università di Glasgow, primo giapponese, si fece assumere come apprendista in svariate distillerie.
Tempo due anni ed il ragazzo si fece le idee chiare, avendo lavorato duro ed appreso i segreti dell’arduo mestiere del blender. Tornato a casa con una moglie scozzese, venne assunto dall’odierna Suntory, allora conosciuta come Kotobukiya; Shinjiro Torii, il proprietario dell’azienda, grazie alla consulenza di Taketsuru fondò nel 1923 la prima distilleria di whisky nel Sol Levante, la Yamazaki, tra Kyoto ed Osaka, in un luogo di ottime acque.
Onorato il suo contratto decennale, Taketsuru se ne partì per il nord alla ricerca del luogo più simile alla Scozia che il suo Paese potesse offrirgli, e trovatolo, aprì la propria distilleria secondo la sua idea originale, ignorata da Torii. Yoichi è il nome di questo luogo e della distilleria, la prima della società Dainipponkaju, oggi ben conosciuta anche da noi col nome Nikka, parte del gigante della birra Asahi.
Il successo del whisky giapponese è un dato di fatto; non c’è fiera alla quale i banchi di Nikka e di Suntory non abbiano la fila. E alle due serate del Whisky Club Italia se ne è avuta la conferma: posti esauriti, con più di 120 partecipanti. Ma qual è il segreto di tanto successo?
Facile: la cura maniacale del prodotto. Il whisky giapponese non ha sbavature, non ammette difetti. Ecco allora la distillazione a fuoco diretto, per la distilleria Yoichi addirittura a carbone; le lunghe fermentazioni; l’uso di attrezzi tradizionali scozzesi e di molte botti ex-sherry; l’artigianalità dei processi produttivi pur nella dimensione industriale. La cura del dettaglio si sente tutta, non c’è spazio per quelle note frequenti nello scotch, quelle dissonanze che rendono i distillati caledoni disarmonici ma al contempo affascinanti nei chiaroscuri. Qui tutto è pianificato, calcolato, voluto. E, immaginiamo, se dall’alambicco esce qualcosa di imprevisto, il master distiller sarà messo alla porta un minuto dopo, o degradato a lavare i tini di fermentazione.
La degustazione ci ha offerto cinque espressioni di whisky del Sol Levante, di difficile reperibilità sul mercato italiano: ognuna si è rivelata almeno curiosa.
SUNTORY | The Chita – single grain whisky – 43°
Distilleria fondata nel 1972, che produce blended whisky per gli assemblaggi. Da alambicchi a colonna (distillazione continua) e in prevalenza da mais, questo distillato ha un’età di circa 6-8 anni. Il naso alcolico e fruttato ricorda curiosamente un bourbon; al palato l’alcool è leggero, ed il gusto speziato, piccante, amaro, vuoto, disarmonico; con qualche goccia d’acqua si apre, scioglie le durezze, ed il mais si rende evidente; dopo un’ora si rivelerà avere un naso floreale con cenni di ananas, dopodiché sarà morto. Sicuramente rende bene in un cocktail, ma da solo è poco interessante.
NIKKA | Miyagikyo – single malt – 45°
La seconda distilleria di Nikka, fondata nel 1969, e capace di produrre tre milioni di litri a.p., ci presenta un No Age whisky. Qui siamo all’opposto del precedente campione: la prima sensazione al naso è di sporco, sembra contenga un poco di flemma; ma un istante dopo eccolo pieno, ricco, grasso, che ti promette dolcezza. Indubbiamente un piacione. In bocca tutta questa ricchezza scompare in un fruttato ben più secco e magro. L’acqua lo smagrisce ancora, facendo comparire lo speziato del legno, molto ben dosato. La forte tensione tra i due poli lo rende disarmonico. Peccato.
CHICHIBU | Ichiro’s Malt MWR – blended malt – 46°
Giovane distilleria artigianale, in produzione da una decina d’anni, capace di sessantamila litri di alcool puro, una zanzara rispetto alle grandi; da subito il master distiller Ichiro Akuto è diventato un personaggio di culto. I paragoni sono odiosi, ma rendono l’idea: provate a pensare a Chichibu come alla Cantillon del whisky giapponese. Due alambicchi da 20 hl, maltaggio a pavimento, bottaio, imbottigliamento, tutto quanto in-house, e tini di fermentazione in legno Mizunara. Non so se in Scozia esista una realtà con simile cura, pur se più in grande.
Questa bottiglia è un blend tra un whisky della distilleria Hanyu, ormai chiusa, di cui Chichibu possiede scorte, e di un proprio whisky, il tutto invecchiato nel pregiatissimo e costosissimo legno Mizunara (Quercus mongolica). I profumi sono molto fini, l’aroma è intenso, vinoso, con cenni di liquirizia, in continua evoluzione, coerente nel tempo. In bocca è secco, maltato e speziato, ed appare un po’ di sherry. Il finale piccante di alcool e di spezie orientali non è poi così ampio. Con le solite gocce d’acqua si sente prima l’alcool poi il fruttato, mentre il palato si addolcisce in un vinoso fruttato. Bella prova.
NIKKA | Taketsuru 17yo – blended malt – 43°
Questo è un blend di whisky single malt delle distillerie Yoichi e Miyagikyo, creato per l’ottantesimo anniversario della Nikka. È stato osannato più volte nei concorsi come miglior blended malt del mondo: dobbiamo crederci?
Qui l’aroma ci porta dritto in Scozia, e tra i grandi whisky ex-sherry. Non si può sbagliare. Assaggiando appare un velo di torba sottotraccia, poi il malto aromatico, ed un po’ di spezie. Con due gocce d’acqua il vinoso dello sherry esplode. Niente da dire, una bella bottiglia a cui l’età dona un gustoso equilibrio.
NIKKA | Yoichi 10yo – single malt – 45°
Il whisky della distilleria capostipite di Nikka, ancora fatto come in Scozia cent’anni fa distillando a carbone in alambicco a fuoco diretto, ci viene offerto come blend di botti decennali. Due milioni di litri di alcool escono da Yoichi ogni anno. Faccio fatica, con la torba; vi ho già annoiato con questo ritornello nelle mie righe su Intravino: ma perché, perché sporcare di fumo puzzolente una bella acquavite di grano? Vallo a sapere, piace. Sia, mettiamo il naso nel bicchiere: dopo la zaffata di torba, l’aroma appare spigoloso, salmastro, ma sotto arriva il profumo del malto. In bocca il whisky è curiosamente meno appuntito, il fumo dosato con mano delicata lascia spazio ad una struttura dolce, fruttata con tocchi speziati. Finale secco, con equilibrio.
KIKUSUI | Ryoma – japanese rum 7yo – 40°
In finale di partita il mio vicino si alza e offre alla sala la degustazione di un intruso: si tratta di un rum prodotto nell’isola di Shikoku, in un luogo famoso per essere stato il primo a coltivare la canna da zucchero in Giappone. Il distillato si ottiene dal succo di canna fresca, come un rhum agricole, ma la sua particolarità è la fermentazione in tini già usati per elaborare il sake, ancora infetti di koji. La canna quindi va incontro ad una co-fermentazione che dona all’acquavite sentori bizzarri. A non averlo ascoltato prima, sarebbe stato difficile dare un nome a questi strani profumi, ma la memoria olfattiva mi diceva chiaramente “già sentito”: erano le note fruttate e così tipiche dei sake, che impastate con quelle del rum, creano una singolare chimera. Al palato il rum è grasso d’esteri, ma secco, aromatico di legno di quercia e di canna da zucchero, fuso nelle note inconsuete per noi della bevanda nipponica. Cos’è? Un contorsionista in equilibrio sulla propria testa, che cerca di ingannare i sensi dell’ignaro degustatore.
Due cenni ancora per chi volesse cimentarsi negli acquisti: il whisky giapponese è più caro dei pari livello scozzesi, e la sua difficoltà è che non esiste un disciplinare produttivo. Per cui può avvenire che una ditta imbottigli whisky di importazione, etichettandolo (legalmente) con nomi giapponesi, e voi lo credete autentico. Bisogna studiare, insomma.
3 Commenti
nicola
circa 7 anni fa - LinkArticolo molto interessante! A mio parere però troppo critico il giudizio verso il Miyagikyo single malt NAS. Non è la bottiglia della vita ma tiene un più che dignitoso confronto con molto blasonati scozzesi. Per motivi a me sconosciuti (ma sarei felice di conoscerli) i giapponesi producono ancora molti blended, mentre in Scozia ormai da anni hanno preso una strada decisa verso i single malt, se non addirittura single cask.
RispondiThomas Pennazzi
circa 7 anni fa - LinkCaro Nicola, ad una critica è giusto rispondere in maniera articolata: premettendo che il giudizio sul bicchiere è necessariamente soggettivo, come del resto succede nel vino-mondo (ed anzi meglio sarebbe limitarsi al "mi piace / non mi piace"). Sarebbe utopistico poterlo determinare in maniera asettica e numerica, ci hanno provato, ma non ci si può credere, se si ha un minimo di senno. C'è di mezzo un soggetto, la sua esperienza, il suo palato, e tutto quanto dipende perfino da quello che il soggetto ha mangiato (e non dovrebbe) prima di degustare, per dirle una delle tante variabili in gioco. Tornando sul punto, questa bottiglia offre un "naso" molto più che dignitoso - come dice lei - ma non lo mantiene all'assaggio: e questo accordo in assonanza tra olfatto e gusto è tuttavia il criterio principe di valutazione di un distillato, quale che sia. Quindi il risultato è, come ripeto, disarmonico. E mi spiace, perchè avrebbe potuto essere un ottimo whisky.
RispondiSir P.
circa 7 anni fa - LinkComplimenti per l'articolo, come sempre. Partendo da questo pensiero che condivido in toto: "ma perché, perché sporcare di fumo puzzolente una bella acquavite di grano? Vallo a sapere, piace." per un neofita come me, quali mi consiglieresti restando in topic cioè dei whisky del sol levante? Grazie
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