Il giornalismo gastronomico non esiste. L’ultimo editoriale di Ignacio Medina (tradotto in italiano)

Il giornalismo gastronomico non esiste. L’ultimo editoriale di Ignacio Medina (tradotto in italiano)

di Jacopo Manni

Ormai quasi due anni fa, di ritorno da wine2wine – il forum internazionale che da anni raduna a Verona le menti più brillanti del wine business – in calce ad un panel sul tema, Alessandro Morichetti scrisse: Il giornalismo del vino non esiste. Una sorta di elefante nella stanza, più riflessione profonda che boutade, poi ripresa ed estesa da Alessandro Trocino sul Corriere della Sera in Storia della critica enogastronomica in Italia (anche se non esiste).

Un pensiero che abbiamo ritrovato nelle pagine dell’ultimo editoriale di Ignacio Medina, uno dei più importanti critici gastronomici mondiali, attivo tra Perù e Spagna.

Medina, nella sua lettera d’addio pubblicata su Siete Caníbales, dipinge un mondo che ha visto negli anni scomparire, un mondo fatto di passione, dedizione, impegno e soprattutto professionalità. Ma, al contrario di quello che accade nei villaggi remoti di una Macondo marqueziana, qui la magia non è mai esistita davvero. Quello del vino e della gastronomia è diventato un circo mediatico, una farsa che brilla di luci abbaglianti ma vuote, in cui il sapore reale si perde tra il rumore delle liste e dei premi ingannevoli.

La lucidità con cui Medina legge la realtà contemporanea, la sua capacità di far emergere, tra le righe, il senso di un addio, ci ha lasciati attoniti. È come il colonnello Aureliano Buendía che, seduto sotto il grande albero di mango, ripensa alle guerre che non ha mai vinto: il giornalismo del vino, come ogni grande epopea, è stato forse solo un’illusione.

Per questo, abbiamo chiesto a Ignacio Medina l’autorizzazione per proporre il suo articolo con la traduzione in italiano. Quello che segue è l’ultimo giro di valzer di un maestro che, con l’eleganza di chi ha saputo capire il mondo, si congeda da un universo che, se mai è esistito, non ha più ragione d’essere.


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Buongiorno, amici. Questa sarà l’ultima rubrica che pubblicherò su 7Caníbales, e anche l’ultimo lavoro giornalistico della mia carriera. Con queste righe finiscono quarantatré anni dedicati al giornalismo gastronomico, dei quarantotto che ho esercitato come professionista. Mi ritiro. Non vado in pensione, perché ho ancora tempo davanti, ma il giornalismo gastronomico non è più un’opzione. Ho dedicato gli ultimi dieci anni a cercare altri lavori che mi permettessero di finanziarlo ed è giunto il momento di accettare che le cose non vanno come dovrebbero: esercito una professione che il mercato non è più disposto a remunerare con dignità. Ancora meno quando si applica alla critica gastronomica e al giornalismo d’opinione, che hanno concentrato la mia attività da quando ho preso in carico la sezione di critica gastronomica a El País 38 anni fa.

Amo il mio lavoro, ma ha smesso di essere una professione, diventando quasi un hobby che non posso permettermi. Ogni anno investo in esso praticamente il triplo di quanto guadagno. Potrei smettere e trovare un lavoro come impiegato, ma non condivido questo modo di praticare un mestiere che richiede indipendenza: per poter esprimere un’opinione è necessario conoscere, e questo implica pagare viaggi, hotel e pasti che da troppi anni nessuna azienda paga per me. Da questa prospettiva, sto sovvenzionando il lavoro che faccio per altri; e con il tempo ho capito che è giunto il momento di lavorare per sovvenzionare la mia vita.

La crisi dei media sta travolgendo il settore. Limita le opportunità, elimina una a una le vecchie sezioni di critica gastronomica  e riduce al minimo le remunerazioni. Questo succede in Spagna e si amplifica dieci volte in quest’America Latina che si vanta delle sue cucine, anche se preferisce ignorare tutto ciò che le riguarda, oltre a liste e premi, sempre ingannevoli, ma così utili per proclamare il solito “siamo i migliori”. Nessuno completa la frase con tre domande essenziali: in cosa?, secondo chi?, è vero? La cucina è passata in secondo piano quando è diventata l’asta che sostiene la bandiera dell’orgoglio nazionale.

Paradossalmente, la cucina pubblica e chi la circonda stanno vivendo il momento di maggiore prestigio sociale della storia. Non è mai stata così popolare e aperta (non chiamatela democratica, per favore; sarebbe un insulto all’intelligenza in società afflitte dal fantasma della fame). Gli aspiranti a entrare nel circo giornalistico si moltiplicano allo stesso ritmo con cui si chiudono le opportunità professionali. Per ogni candidato fallito nasce un’agenzia di comunicazione, un addetto alle relazioni pubbliche o un’influencer illuminata, che proclama l’eccellenza di ogni boccone che assapora nel corso della giornata. La conoscenza e la credibilità contano sempre meno.

Oggi interessa di più chi cucina, il genere o la condizione della persona, piuttosto che il modo in cui lavora o serve il cliente. Nel frattempo, il cliente è diventato una variabile estranea nell’equazione dei media. La maggior parte ha deciso di ignorare il consumatore, di rinunciare a informarlo, evitando di orientarlo, fornirgli conoscenza o aiutarlo nella scelta. La superficialità, la leggerezza e l’irrilevanza dominano i contenuti preferiti dalle aziende, evidenti nelle sempre più bizzarre sezioni di gastronomia dei quotidiani. I pochi media indipendenti sopravvivono a malapena.

Ogni giorno ci sono meno strade per il giornalismo gastronomico. La più percorsa è quella che si vanta dell’ignoranza per trionfare nella frivolezza, nelle mezze verità e nelle argomentazioni distorte. Il settore si preoccupa di decidere chi è il miglior venditore di churros del quartiere, ma non riesce a spiegare com’è fatto un churro, come viene preparato e come potrebbe essere migliorato. Non voglio quel tipo di giornalismo per me. Non voglio neanche quello del giornalista compiacente, che si illude di difendere l’onore del rinomato chef, e in cambio riceve un pasto, un gesto e uno sguardo condiscendente, come si fa con il cagnolino di famiglia. La precarietà del momento non favorisce l’esercizio del giornalismo gastronomico; i media hanno smesso da tempo di pagare dignitosamente chi li rende possibili. Hanno affrontato la perdita di lettori moltiplicando i video di animali virali, presumibilmente utili per catturare un lettore che non ha mai letto un giornale (e continuerà a non farlo), anziché offrire contenuti che aiutino a riconquistare quei lettori persi a causa della loro stessa vacuità.

La catarsi è ancora più profonda quando si pratica il giornalismo d’opinione. L’ho esercitato per quasi tutta la mia carriera, quasi sempre come critico di ristoranti, ma anche come analista culinario, e mi ha dato tutto. Fondamentalmente, la certezza che ciò che ho fatto per tanto tempo e che oggi concludo aveva un senso, oltre a qualche gioia e, inevitabilmente, anche alcuni nemici. “Sporco viscido”, mi disse anni fa un cuoco di vetrina sui suoi social media. Lo presi come un episodio aneddotico alimentato dall’arroganza e dalla presunzione, ma mi sbagliavo: era anche il segno premonitore di un’epoca in cui l’alta cucina e le agenzie che gestiscono le leve del potere – forse una delle conseguenze più notevoli del ridicolo delle classifiche – esercitano un controllo onnipresente sul mercato, e di conseguenza, su ciò che viene scritto. Viviamo per lo più il giornalismo che loro, e una parte dei loro sponsor, desiderano.

Questo fenomeno è arrivato anche nel mio Perù – sono peruviano, con cittadinanza, carta d’identità e passaporto – amplificato dieci volte. Non è raro che le loro opinioni influenzino il nostro lavoro. I nuovi imperatori culinari esercitano il diritto di veto sul lavoro del giornalista. Spero che, ora che mi sono ritirato, abbiano la decenza di lasciarmi in pace.

Non mi lamento, spiego solo. In effetti, mi considero una persona fortunata. Faccio parte di un piccolo gruppo di giornalisti – José Carlos Capel, Carlos Maribona, Víctor De la Serna… – che ha potuto vivere e godere di tutte le epoche della cucina: la fine dell’alta cucina classica, la Nouvelle Cuisine, la Nuova Cucina Basca, la rivoluzione delle avanguardie creative scatenate dall’immaginario di Ferran Adrià e, quando tutto sembrava finito, la rivoluzione sociale lanciata dal Perù grazie a Gastón Acurio. La vita e il destino ci hanno permesso di essere testimoni di processi unici e, a volte, di influenzarli. Questo, di per sé, giustifica una carriera. Ho vissuto anche il nuovo tempo delle cucine latinoamericane, così emotive, immature, spesso infantili, e proprio per questo così affascinanti. Ho trascorso anni molto felici seguendo chef, cucine e ristoranti sempre più emergenti, che hanno sempre più bisogno di riflessione: riempire una sala a più di 500 dollari a persona non significa che il tuo lavoro sia maturo. Smettiamo di confondere la fama con la qualità.

La cucina è cambiata tanto quanto il giornalismo negli ultimi cinquant’anni. Quarantatré anni mi hanno permesso di reinventarmi molte volte, seguendo un percorso che si è gradualmente allontanato dall’alta cucina per avvicinarsi ai giovani. A loro appartiene il futuro, ma dovrebbe appartenere anche il presente, che richiede tanto entusiasmo e molto più impegno: non troveranno un posto nel futuro finché non saranno in grado di mettere in discussione le basi della loro cucina, come punto di partenza verso una comprensione che li aiuterà a trasformarla. Senza questo, non ci sarà progresso. Anche molti veterani impassibili e annoiati dovrebbero applicare lo stesso principio.

Devo molto ai miei quasi vent’anni di relazione con l’America Latina. Qui ho ritrovato l’entusiasmo per il lavoro giornalistico e sento che qui ho trovato la mia voce. Probabilmente, è stato dettato dalla necessità di farmi comprendere in una regione che parla tante lingue diverse, anche se la maggior parte si chiama spagnolo. Qui ho potuto fare la mia penultima svolta professionale come editor di 7Caníbales per la regione. Amo l’editoria: lavorerei come editor fino alla fine della mia vita utile, ma siamo anche sostituibili; non importa se il nostro compito è indispensabile.

Sono sempre stato un privilegiato: ho potuto fare ciò che desideravo. Ora, dopo tutto questo tempo, sono pronto a dare l’ultimo giro di vite alla mia carriera, che significa metterla da parte e esplorare nuovi territori. Continuerò nel settore, scrivendo libri per ristoranti, tenendo lezioni, conferenze e offrendo consulenze. Lascio il giornalismo, ma non la gastronomia, che ha così tanto da offrire…

Addio, amici, grazie per tutti questi anni.

Ignacio Medina

[Foto cover: Istituzioni24]

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Jacopo Manni

Laureato in Storia Medievale è PhD student in geografia a Tor Vergata con una tesi sulla valorizzazione vitivinicola del Vulcano Laziale. Studia i vini vulcanici e le geografie del vino. Ha un suo podcast sul futuro del cibo. Ha pubblicato libri di cucina per Terre di Mezzo e Armando Curcio e ha scritto podcast sul vino e sul cibo per Chora Media tra i quali Vino Vicino. Vive di vino e studia le sue geografie.

5 Commenti

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Vinogodi

circa 4 giorni fa - Link

...che tristezza...tra l'altro generalizzabile anche alla critica enologica ... troie e ballerine ... fra un pò ci si trova su Only Fans ...

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Lanegano

circa 4 giorni fa - Link

L'articolo è bellissimo nella sua serietà e dignità dolente oltre che per i contenuti. Mi viene da dire, senza pretesa alcuna di originalità, che l'avvento dei vari Tripadvisor per cui chiunque può avere voce in capitolo in ambito gastronomico e non solo abbia contribuito ad affossare il settore. Mi sta bene che i consumatori possano dire se nel tal posto si sono trovati bene ma spesso leggo (leggevo, in realtà, oggi non lo faccio più) opinioni senza senso e senza criterio. E' probabilmente la inevitabile conseguenza della rete e del mondo iperconnesso e globalizzato che illude di avere maggior voce in capitolo su tutto ma invece sgretola la coscienza critica figlia delle competenze e delle riflessioni profonde. Leggendo le parole di Medina mi è venuto in mente il film 'Social Network' nel dialogo in cui, parlando di Napster e della sua chiusura da parte delle autorità Sean Parker dice 'sono colui che ha distrutto l'impero delle major musicali' e Zuckerberg gli replica 'ma ti hanno fatto chiudere' Parker conclude con 'ok, vuoi aprire un negozio di dischi, allora' ?. Game, set, match. Ci piaccia o meno.

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Vinogodi

circa 4 giorni fa - Link

...siamo sinceri e diretti: sono pochi , anzi pochissimi , oggi nella critica, a spostare i consumi di massa o creare interesse diffuso e generalizzato in chi segue la materia. L'ultimo fu Parker. Dice benissimo , lo scrivente, che non si è più disposti a finanziare la critica enogastronomica , quindi per campare ci vogliono i compromessi . E senza potentati economici del settore , non c'è trippa per gatti: per cui al network di conoscenze, di ammiccamenti, di concessioni , di premiucci ...non si negano a nessuno . Perchè chi non è premiato, dei grandi , toglie saluto e finanziamento occulto ... e , quindi , la credibilità è andata a donne di malaffare . Questo indipendentemente dalle nuove tendenze e strumenti comunicativi. Anche per la discussione fra appassionati , che si sono spostati più su canali social , soprattutto nei gruppi WA . In parte odiosi : sembrano le chat delle mamme dei bimbi di scuola elementare , insopportabile cicaleccio con frequenza di interventi rasentante la nevrosi collettiva...

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Stefano Cinelli Colombini

circa 11 ore fa - Link

È vero, sia il giornalismo culinario che quello enologico stanno morendo. Hanno meriti enormi, forse si deve a loro la creazione di interi mondi perché è evidente che senza la stampa il moderno sistema del cibo non sarebbe ciò che è ora. Nulla sarebbe così evoluto, né i consumatori né i produttori o tutto ciò che c'é nel mezzo. E invece siamo di fronte ad un paradosso, il mondo voluto e cantato dai media di settore prospera mentre loro muoiono. Davvero strano, un'atmosfera da valzer n° 2 di Shostakovich. O valzer triste, se preferite.

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marco

circa 8 ore fa - Link

È un articolo "storico" perché sancisce la fine di un'epoca. Scritto da un grande giornalista. C'è tutto. -------------------- Guardando su YouTube i canali di alcuni Youtuber italiani che recensiscono di tutto e di più (ristoranti, pizzerie, pasticcerie, street food, ecc...) con centinaia di migliaia di seguaci e migliaia di visualizzazioni ... che addirittura fanno recensioni a Parigi, Barcellona, Londra ecc ... e riflettendo sulla qualità spesso mediocre delle recensioni ... mi sono chiesto: "Sono questi i nuovi critici gastronomici?" "Sono questi quelli che proseguiranno l'attività svolta dal grande Ignacio Medina?" Complimenti per l'articolo.

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