Il vino di Petronilla | Cosa si beveva in Italia nel 1937
di Thomas PennazziChi ha l’abitudine di frequentare fornelli e tegami, e qualche annetto sulle spalle, dovrebbe probabilmente conoscere un personaggio celeberrimo al tempo della Domenica del Corriere tra le due Guerre: la Petronilla. Se il paragone non vi è troppo audace, potremmo pensarla come l’antesignana di tutte le food blogger di oggi.
Amalia Moretti Foggia, questo il suo vero nome, nata a Mantova nel 1872, laureata a Bologna in medicina tra le primissime, nonché prima donna pediatra d’Italia, esercitava la professione con alto spirito filantropico secondo la felice ispirazione del socialismo milanese dei primi del Novecento, a servizio delle donne e dell’infanzia più povera, che un medico non potevano permetterselo. Insomma, era una figura progressista ed illuminata, forse troppo avanti sul suo tempo, ma vissuta nel posto giusto (a Milàn col coeur in man).
Dal 1929 Amalia iniziava a scrivere come prima giornalista donna del Corriere sul suo seguitissimo settimanale, con una rubrica di consigli medici; nascosta tuttavia dietro lo pseudonimo maschile di dottor Amal su raccomandazione della redazione, che temeva il pregiudizio sulla sua credibilità di donna. Pochi anni dopo se ne aggiunse una di cucina chiamata “Tra i fornelli”, firmata col nome d’arte di Petronilla, ispirato da una famosa striscia dell’epoca sul Corriere dei Piccoli, in cui l’imperfetta cuoca ovvero la donnetta qualunque, come Amalia troppo modestamente si definiva, insegnava alle sue lettrici inesperte una ricetta a settimana, incorniciata da una storiella di gusto vivacemente narrativo.
Queste ricette, pubblicate dal 1932 al 1947, anno della sua morte, ebbero una popolarità seconda solo all’Artusi, e dopo qualche tempo cominciarono ad essere stampate in alcune fortunatissime raccolte di volumetti dalla Casa Editrice Sonzogno di Milano. In uno di questi volumetti, si trova un interessante preambolo sull’organizzazione di diversi tipi di colazioni e pranzi, e sul corretto servizio di essi. Tra cui, e non poteva non attirare la mia attenzione, qualche paginetta su quali vini offrire in accompagnamento alle varie pietanze.
Lo spaccato che ci offre la Petronilla porta la data dell’agosto 1937, ed è il ritratto degli usi correnti del vino nelle case della media borghesia cittadina italiana a quel tempo, quindi di circa 90 anni fa.
L’incipit è del tutto petronillesco:
Per i vini, amichette, bisogna rimettersi alla propria cantina, al proprio borsellino, ed anche ai vari gusti.
La prima raccomandazione invece è perentoria, pensando al momento storico: la stagione dell’autarchia affliggeva anche la cantina, e quindi era opportuno
attenersi però, ed esclusivamente, ai [vini] nostrani giacché noi, figli d’Italia […] non dobbiamo – assolutamente non dobbiamo – pur di darci certe… arie, spender soldi in vini forestieri.
La seconda, di porre sempre in tavola, quale che sia il pranzo,
una bottiglia di vino bianco (sempre secco), e una bottiglia di vino da pasto, purché sia… di vino prelibato.
Leggiamo quindi cosa raccomandava di servire la Petronilla alle sue lettrici:
Quali vini bianchi secchi
Per pranzi e colazioni alla buona mi attengo al Soave veronese, perché vino locale; ma a voi, amichette, che siete sparse per tutta la nostra Italia bella, addito il Bianco Cortese piemontese; il Verdicelio (sic) marchigiano; il Bianco Chianti toscano; l’uno e l’altro dei prelibati vini delli Castelli romani; il pugliese Bianco Sansevero; ed il sardo Nuragus. Quando invece voglio molto molto bene figurare, mi attengo – sia per gli antipasti che per il pesce – agli scicchissimi vini bianchi di Capri o di Orvieto, ché quando si vuole molto figurare – bisogna anche adattarsi a molto spendacchiare.
Ecco, vedete, le prime indicazioni non recano particolari guizzi enofili, ma bottiglie dignitose di facile reperibilità regionale – considerando anche che al tempo era molto più semplice procurarsi del vino sfuso della zona dalla bottega del vinaio di città o alla più vicina osteria portandosi dietro la caraffa. La bottiglia era pur sempre riservata ai vini di una qualche pretesa.
Quali vini da pasto
Ma… da pasto con invitati, e quindi vini un po’ più… alti di quello, un po’… basso che uso ogni giorno; io ricorro al veronese Valpolicella (il preferito dal mio signor marito); a voi però addito anche il Bardolino, pure veronese; il famoso Lambrusco modenese; il Secco Dolcetto ed il Grignolino piemontesi; i briosi vini dell’Oltrepò pavese; il romagnolo Sangiovese; il famoso San Ferdinando pugliese; e l’uno o l’altro dei rinomati Chianti che ci offre la Toscana.
Ben poco Sud per i rossi da tavola, tanta idea d’osteria, e voglia di berlo, il vino. Il Chianti non si dava ancora le arie… di sciccheria, come direbbe la Petronilla, ma era già diviso in due fazioni.
Quali vini per arrosti
Per qualsiasi piatto di carne, io riserbo – ma esclusivamente per i miei grandi pranzi, non mai per colazioni (sian pure sciccone) ben sapendo come non sia prudente variar nei vini a mezzo della giornata… – l’una delle bottiglie da anni tappate, da anni lasciate a riposare nel fresco della cantina, e che si stappa quando l’arrosto compare in tavola. Nella nostra cantina (che è quella di gente scarsetta di soldi, e quindi anche di vini) non son che bottiglie del piemontese Barolo, cioè di quello che su tutti, per il profumo preferisco io; ma a voi, amichette, suggerisco anche il Barbera, il Barbaresco, il Gattinara, tutti quanti piemontesi; il Sassella, il Grumello e l’Inferno, tutti della Valtellina; gli alcoolici vini rossi e secchi delle Puglie; e il siciliano Faro secco, che però… per esser figlio della terra infocata dell’Etna, facilmente troppo riscalda le teste.
Anche nei grandi rossi la scena è dominata dalla produzione del Nord: l’offerta abbondante e la facile reperibilità in bottiglia rendevano i vini piemontesi ed in misura più locale i grandi valtellinesi le etichette di scelta per l’invecchiamento nelle cantine domestiche dei milanesi. Sarà così fino a tutti gli anni Settanta. Curiosamente, nessun vino toscano sembra essere all’altezza della fama dei precedenti. Che non fossero già allora di poca spesa, un criterio molto caro alla nostra autrice?
Quali vini per i dolci
che, come tali, dovranno essere anch’essi assai dolci, e riserbati per i soli pranzi durante i quali non si siano prima stappate altre bottiglie (prudenza e saggezza insegnano d’essere assai parchi nel variare i vini), io, amichette, vi addito i moscati d’Istria Rosato e Malvasia; i passiti ed i vini santi toscani e dell’Elba; la romagnola Albana; i moscati pugliesi Aleatico e Solento; i dolci vini sardi Malvasia e Vernaccia; e i famosi moscati siciliani di Noto e Siracusa.Alla fine di un pranzone – ma soltanto di un grandissimo pranzone – si stappano, in casa nostra, anche 1, 2 e persino 3 bottiglie di vino bianco spumante. Si stappano, invece di quelle di vino dolce, mentre viene appunto servito il dolce; o – se non si volessero ascoltare i consigli delle Madame Prudenza e Saggezza – dopo le frutta e prima del caffè. Le bottiglie, tenute prima per qualche ora in ghiaccio (o fuori della finestra nell’inverno) le stappa sempre il marito con la sua faccia compunta di grave uomo che stia compiendo un’importantissima operazione […]
È dover nostro – ognuno lo dice; lo predica; lo ripete; e Sua Maestà stessa ce ne dà il grande e saggio esempio – ricorrere direttamente ai nostri bianchi spumanti e non già a questi stessi mandati da noi oltr’Alpe, e là manipolati, e da là poi rimandati con tanto di etichetta forestiera, ma con tanto – anche – di prezzo decuplicato. E fra i nostri vini bianchi e spumeggianti per fine-pranzo, ecco così gli spumanti di Conegliano e di Trento; lo spumante Lacrima Cristi della Campania; e quelli che a tutti offre la cittadina del Piemonte che degli spumanti è la somma regina, cioè il dolce Moscato d’Asti, forse apprezzato più dalle donne di Francia che dalle donne d’Italia; e il Secco spumante d’Asti, quello ch’è il tipico, il classico, quello che vien sempre servito anche ai pranzi di Casa Reale, quello che deve, quello che degnamente può, sempre sostituire in ogni mensa italiana i vini della francese Champagne.
Ora sapete, amichette mie timide ed ignare, anche quali vini vi conviene, nelle varie occasioni, comperare; sapete cioè come basti disporre del sonante borsellino maritale, per potere – in quanto a vini – tanto osare e tutto fare.
Si nota subito da questa divertente lettura che la Petronilla schifava i vini dolci, un gusto anticipatore della tendenza degli anni a venire; sappiamo bene quanto questa nicchia enologica sia ancora oggi ghettizzata dai sapientoni ed estranea alle mode correnti, pur contenendo delle perle di notevolissimo valore. Invece lo spumante scorreva a fiumi a casa Amalia: la lettura completa della pagina, che ho purgato dal romanzesco, vi darà anche una descrizione brillante dell’attesa del vino e dell’ebbrezza che a tutti dona la… bollicina.
Suscita curiosità invece la polemica politica contro i francesi, a cui, dice, si inviassero – e qui bisogna interpretare – le basi spumante, che poi tornavano indietro, lavorate alla loro maniera e nobilitate di etichetta e cartellino del prezzo altisonanti. Chissà se non fosse astio per gli intraprendenti cugini, o qualche voce di verità che girava all’epoca, e forse una pratica continuata fin dopo la guerra? Qui i nostri lettori piemontesi di lunga memoria o qualche storico del vino potranno illuminarci.
Alla fine, si tratta di un capitoletto piuttosto elementare di scuola da sommelier, ma perfettamente adatto ad istruire le sue moltissime lettrici, amichette timide ed ignare, nel servizio dei vini ad un pranzo tra intimi oppure con invitati… d’importanza. Ed anche un saggio di letteratura minore – ma solo per tematica – di questa nostra grande e generosa divulgatrice.
3 Commenti
Lanegano
circa 12 ore fa - LinkE' un articolo semplicemente delizioso. Grazie.
RispondiNic Marsél
circa 5 ore fa - LinkCarinissimo. Con qualche sorpresa. Che fine ha fatto "il famoso San Ferdinando pugliese"? E poi "nella nostra cantina (che è quella di gente scarsetta di soldi, e quindi anche di vini) non son che bottiglie del piemontese Barolo..." Arrosto o non arrosto il prezzo è evidentemente lievitato parecchio. Infine "i prelibati vini dei castelli romani"... boh ... davero?
Rispondimarco
circa 1 ora fa - LinkAnche a me è piaciuto l'ottimo articolo di Thomas Pennazzi. Sono passati 87 anni da quando Petronilla scriveva questi consigli per la borghesia italiana. Siamo entrati da poco nell'era dell'Intelligenza Artificiale. Non esiste più un grande settimanale cartaceo paragonabile alla Domenica del Corriere. Domina il Web. Dominano i Food Influencers. Benedetta Rossi, a luglio del 2024, ha venduto la metà della sua attività online alla Mondadori per 7 milioni di euro. Ha venduto 1,5 milioni di copie dei suoi 9 libri Mondadori. La Classe Media, quasi inesistente ai tempi di Petronilla, è in continuo ridimensionamento con strati che passano nei Ceti Popolari. Insieme a questi ingrossano le code dei DISCOUNT Europei più famosi dove trovare qualche buona bottiglia di vino per fare bella figura. Gli italiani mangiano sempre più spesso piatti di altre Culture Gastronomiche inesistenti ai tempi della prima donna pediatra italiana. Non esiste più l'italiano e l'italiana del 1937, che è scontato, ma non esiste più l'Italia di 30 anni fa.
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