Ammazza che bòno: Barbaresco 1968, Gaja
di Marco ColabraroTampone Covid: positivo.
Salta un pranzo a base di pesce con gli amici. Mi ritrovo a casa, solo, chissà per quanti giorni ancora. Apro la cantinetta in cerca di una bottiglia seria, e vecchia. Ho tutta la giornata davanti e, ormai lo so, i vini con più di vent’anni sulle spalle sono difficili da bere in compagnia, soprattutto se la situazione non è seriosa (eventi da cui mi tengo volentieri alla larga); meglio dedicarsi al tu per tu e darsi il tempo per conoscersi.
Scaffale delle antichità. Mi imbatto in una bottiglia nera di polvere, senza etichetta (un’etichetta che sono certo di aver conservato da qualche parte e pure di averla fotografata ma mica la trovo più); decido di aprirla. Sono convinto sia un Barolo, uno di quelli del sottoscala di nonna, uno di quelli di una cantina che non esiste più, uno di quelli che 3 su 4 sono stanchi, seduti, fottuti, marsalati porco il demonio.
Sarà la febbre, sarà la tosse ma mica guardo bene la bottiglia, apro con poche attenzioni, come fosse un nebbiolo 2020, senza paura di rompere il tappo. E infatti il tappo mica si rompe, anzi, viene fuori lungo, dritto, bagnato quanto basta, solido e bello che ci rimango quasi male.
Nel calice il vino è vivo! Guardo bene la bottiglia: inciso sul collo c’è un grappolo stilizzato e poi la scritta GAJA 1859. Ho aperto una bottiglia che non volevo aprire, di quelle che rimandi sempre perché l’occasione non c’è mai. Se ricordo bene è un Barbaresco 1978, ma può essere pure prima. Il vino non dimostra quei quarant’anni e più, proprio no! Almeno la metà.
Io mi emoziono, ok? Tabacco da sigaro e una ventata balsamica, di menta mista anice. Poi la carruba e la pelle, raffinata però, più negozio di Brera che mercato di Marrakech. Poi prugna sotto spirito. Due calici e sto, che soddisfazione. Abbinamento: pasta in bianco con Grana grattugiato sopra.
A cena, altri due calici: ora pepe bianco su tutto e una bellissima, sensualissima, nota affumicata. Tannino ancora vivo e struttura in equilibrio raffinato. L’ho trovato più esplosivo e vibrante appena aperto (avrei finito la bottiglia in mezz’ora), adesso è un invito alla riflessione. Faccio il segno di wow con la mano pure se sto solo in casa: volteggio il polso con la mano aperta. Lascio un calicino e mezzo per il giorno dopo quando mi accorgo che ormai il Covid ha preso il sopravvento. Non ho più l’olfatto, non ho più il gusto. Ma ho scelto un bel modo per salutarli.
Per dovere di cronaca; ho bevuto un Barbaresco Gaja 1968, me l’ero segnato in uno dei rari inventari che ogni tanto mi sogno di fare, perso tra le note del cellulare. E, sì, è ancora più sorprendente. Ammazza che bòno.
5 Commenti
Giacomo
circa 1 anno fa - LinkBene, ma non benissimo.
RispondiPaolomik
circa 1 anno fa - LinkMai bevuto così vecchio....purtroppo... Ho avuto però il piacere di Sori Tildin e San Lorenzo 1997 e 1999. Aperti con la quasi certezza che fossero andati....invece buonissimi . Frutta neanche l'ombra ma un terziario davvero soprannaturale ;)
RispondiMarco Colabraro
circa 1 anno fa - LinkDaje, bene! Quando ti sorprendono è ancora più bello!
RispondiBT
circa 1 anno fa - Linkche culo. io ho un greppo 1994 che temo andato. ultimo residuo di una serie di bottiglie ereditate ma tutte mantenute malissimo.
RispondiMarco Colabraro
circa 1 anno fa - LinkHai ragione, sì, gran culo! Le bottiglie ereditate sono davvero un punto di domanda, ma quando capita quella giusta si gode alla grande!
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