Il Concorso nazionale del Pinot nero a Montagna, il Brettanomyces ed altre storie
di Jacopo CossaterDevo dire che l’esperienza che quest’anno ha preceduto l’inizio delle manifestazioni veronesi è stata davvero preziosa, una di quelle da tenersi strette: sono stato invitato, era la mia prima volta, a far parte della giuria del Concorso nazionale del Pinot nero. Una degustazione particolarmente ampia che si tiene ogni anno a Montagna, in Alto Adige, di cui avevo letto e sentito parlare più volte, famosa non solo per l’oggetto del contendere – il Pinot nero italiano appunto – ma anche per le sue uniche e particolarissime regole del gioco, se vogliamo chiamarle così.
Un sistema piuttosto stringente, che mette sotto giudizio anche il singolo assaggiatore ed il suo “stato di forma”, il cui ovvio scopo è quello di far emergere nel modo più inattaccabile possibile i migliori vini in assaggio, sempre. Certo, questa è quella parte del post in cui sarebbe interessante discutere del concetto stesso di “migliore”, e di come questo sia indissolubilmente legato alla sensibilità dei diversi assaggiatori, ma su questo argomento vorrei tornare tra qualche riga. Prima vorrei fare una breve panoramica sul metodo, un insieme di indicazioni originariamente elaborate da Armin Kobler quando era in forza presso l’Istituto Sperimentale Laimburg e successivamente modificate in alcune sue piccole parti dall’attuale organizzazione del Concorso.
A proposito, dopo questa prima esperienza è impossibile non sbilanciarsi: per il servizio, per il clima e più in generale per il contesto le due degustazioni cui ho partecipato sono entrate di diritto tra le mie migliori esperienze di sempre. Tutto era costantemente perfetto, niente era mai fuori posto. Dai bicchieri, sempre brillanti e liberi da qualunque imprecisione olfattiva, fino alle temperature dei vini e le tempistiche con cui venivano serviti. Con un pizzico di colore mi verrebbe da dire che tutto era molto “tedesco”, spero che lassù lo prendano come un complimento. Vuole essere tale.
C’è un dettaglio, in particolare, che mi ha fatto capire quanto tutto quello che riguarda il Concorso nazionale del Pinot nero venga preso maledettamente sul serio: i vini serviti non vengono semplicemente versati alla cieca, magari resi anonimi alla meno peggio come per esempio il sottoscritto è abituato a fare in occasioni del genere. Per far sì che non ci sia mai (mai) alcuna differenza – anche in assenza del comune sentore di tappo ci possono essere alcune piccole discrepanze dovute a problemi del sughero – tre bottiglie per ogni etichetta vengono assaggiate, versate in un contenitore più grande, mescolate e successivamente rimesse in tre bottiglie tutte uguali, opportunamente numerate. Un procedimento tutt’altro che banale, ripetuto prima del servizio per tutti i vini in concorso (in questa edizione, 69).
Dicevo del sistema, sul sito è possibile consultare una versione abbastanza estesa di tutte le “regole del gioco”, come le ho chiamate prima. Per brevità ecco quelli che possono essere considerati come i punti chiave: innanzitutto si lavora in coppia, ogni tavolo è formato da due assaggiatori che per ogni vino devono necessariamente esprimere un giudizio comune, anche a costo di fare una media matematica dei rispettivi punteggi. Nessuna commissione riceve poi i vini nello stesso ordine, un accorgimento necessario per far sì che nessun particolare Pinot nero venga penalizzato dall’essere servito tra i primi o tra gli ultimi, quando per forza di cose l’assaggiatore tende ad essere più stanco e (forse) meno affidabile. A proposito di affidabilità, e qui inizia la parte più divertente, ad ogni commissione vengono serviti – ovviamente alla cieca – gli stessi vini più e più volte. Questo costringe a tenere l’attenzione sempre particolarmente alta, pena il venire scartati del tutto dai conteggi finali nel caso la propria forbice di valutazione sugli stessi vini sia troppo ampia ed essere considerati, di conseguenza, poco affidabili. Certo, a tutti in fondo può capitare una giornata no (meglio non sia proprio quella però).
“Ne vale la pena?”, avevo chiesto a Fiorenzo prima di decidere se andare o meno, lui era nella giuria dell’anno scorso. “Sì, senza dubbio”, era stata la sua veloce risposta, quella che mi aveva definitivamente convinto. Era stato poi lo stesso Fiorenzo a scrivere sempre l’anno scorso un post piuttosto rilevante sulla difficoltà di convergere verso un giudizio oggettivo, con tutta l’approssimazione che questo comporta. L’impossibilità di rendere oggettivo ciò che per sua natura è soggettivo. Perché in effetti nonostante quella di Montagna sia stata un’esperienza di fondamentale importanza ci sono alcuni piccoli dettagli che nella mia testa continuano a non girare nel modo giusto. La stragrande maggioranza degli assaggiatori presenti quest’anno era per esempio altoatesina. Con tutta la buona volontà possibile mi è davvero difficile pensare che questo non comporti l’imporsi di uno specifico stile produttivo. Un’impressione che è diventata una conferma quando il mio compagno di assaggi, l’enologo che era con me in commissione, ha definito uno dei vini in concorso come “non tipico”, penalizzandolo assai nel punteggio. Della serie, parliamone. Di sicuro si trattava di un Pinot nero più caldo e complessivamente più largo rispetto ai suoi omonimi sudtirolesi, al tempo stesso però era vino di un certo interesse, con una dignità tutta sua, che certamente non meritava di venire derubricato come atipico. Anzi, questa suo aspetto territoriale che sembrava prevalere su quello varietale aveva secondo me la valenza di una virtù, ma vai a spiegarglielo.
Peter Dipoli, una delle anime del concorso, durante l’introduzione alla prima giornata di assaggi ha sostenuto che se il trend dovesse rimanere invariato a partire dall’anno prossimo il rischio è che la manifestazione da nazionale diventi (solo) altoatesina. Sono infatti sempre meno le aziende che dal Friuli, dalla Toscana, dall’Emilia e in generale da tutte le altre regioni italiane inviano i propri campioni per partecipare. Un campanello d’allarme per una degustazione che vede nella propria giuria un numero particolarmente rilevante di enologi, tecnici, più in generale produttori di quegli stessi vini che sono in gara. Vero è che sono tutti serviti alla cieca, il rischio però è che nel cercare il proprio Pinot nero la tentazione sia quella di premiare tutti quelli che più o meno gli somigliano. Cosa dicevo a proposito di una giuria composta da membri a grandissima maggioranza provenienti dall’Alto Adige? Per dire: di fronte ad uno di quelli davvero buoni – se non ricordo male il mio punteggio differiva con quello dell’enologo con cui ero in commissione di soli due o tre punti, entrambi sopra i 90 – nel tesserne le lodi ad un certo punto è uscita la seguente affermazione, a chiudere ogni possibile sviluppo sensato della cosa: “poi sai, secondo me potrebbe essere il mio”. Ecco.
Tutto questo per dire che quella di Montagna è stata un’esperienza davvero bella per confrontarmi con un mondo, quello dei concorsi, che conosco pochissimo ed in modo assai marginale. L’impressione è che riuscire a tirare fuori da tutto questo un minimo di senso sia davvero difficile (e non mi riferisco solo al Pinot nero), e che sempre e comunque sarà la scelta della giuria a determinare questo o quel risultato. Questa giuria, quest’anno, ha portato alla vittoria di questo Pinot nero. Un’altra giuria, in un contesto completamente diverso, potrebbe sorprendere con risultati sensibilmente diversi.
Il post si potrebbe più o meno chiudere qui, ci tenevo però a sottolineare un’ultima cosa. Assaggiare e confrontarsi a quattr’occhi con un enologo è esperienza sempre particolarmente stimolante e formativa. Ogni volta che mi è capitato posso dire di esserne uscito arricchito. Fino ad un certo punto però, che poi la cosa rischia di diventare per certi versi frustrante, in modo particolarmente evidente quando nel bicchiere emergono quelli che ai loro occhi sono solo, sempre e comunque, dei difetti. Ah, i difetti. Maledetti. È in quel momento che mi rendo conto dell’esistenza di alcune distanze grammaticali che appaiono ai miei occhi non solo come lontanissime, ma anche inesorabilmente incolmabili. L’acidità volatile è un difetto? Sempre e comunque? Senza scadere in facili qualunquismi io sarei per un democristiano “dipende”. Potrei raccontarvi di quella volta che alla cieca tra amici abbiamo servito un famoso e premiatissimo Nero d’Avola siciliano seguito, nel secondo bicchiere, dallo stesso identico vino cui erano state aggiunte un paio di gocce di aceto (uno di quelli buoni). Indovinate chi ha vinto.
A Montagna vedere che una percettibile acidità volatile veniva sempre e comunque abbinata ad un difetto era cosa che mi faceva per certi versi impazzire, per non parlare dell’assurda situazione di punteggi che alla fine andavano magari a differire di 20 punti e oltre (mentre sui vini più eleganti c’è sempre stata una grande sintonia, sottolineatura necessaria). Per non parlare di quei lieviti che ho capito essere in Alto Adige considerati non solo come un affronto alla sanità e alla pulizia della cantina ma anche al buon gusto e al comune decoro, benvenuti Brettanomyces. Nel mondo della birra il Brett si compra al chilo, letteralmente. Nel vino viene quasi sempre visto come il peggiore dei nemici. Senza eccedere in estremismi, con moderazione, il giorno che capiremo chi dei due ha ragione sarà sempre troppo tardi.
13 Commenti
Nelle Nuvole/Raffaella Guidi Federzoni
circa 10 anni fa - LinkMamma mia, quanti spunti in questo post! Una formula leggermente complicata per una degustazione cieca che deve stabilire uno/dei vincitori. Può funzionare solo in luoghi in cui tutto funziona sempre. L'omologazione del gusto nativo della maggioranza dei degustatori limita e penalizza espressioni outsider dello stesso vitigno. Assaggiare con un/una enologa è tormento ed estasi per chi enologo non è. L'imperfezione che può piacere e caratterizzare certi nasi e palati per altri è sgradevole e sbagliata. Complimenti a Jacopo Cossater
RispondiNic Marsél
circa 10 anni fa - LinkFantastico! Grazie Jacopo.
RispondiVinogodi Marco Manzoli
circa 10 anni fa - Link...bene, uno spaccato su come non vorrò mai fare più una degustazione . Ma perchè , semplicemente, so di non essere professionista né professionale (ne ho più l'età) di desiderare di cimentarmi in questa specie di tortura "dovuta" alla enocrescita culturale personale. Il racconto di Jacopo , però , è stato piacevolissimo e coinvolgente nei contenuti ... e ricco di ricordi. Perchè se può essere una grande esperienza confrontarsi , periodicamente, con un professionista del settore, diverso è viverci assieme , quotidianamente, per quarant'anni e litigarci una volta si e ... una volta si per un approccio completamente diverso nell'affrontare il pianeta vino. Dove personalmente ho sempre desiderato discettere enoicamente , come propensione , su analogie, emozioni, punti di forza, specificità, iperbole sensoriali, recettori stimolati, estetica del gusto, biochimica del piacere ... avendo un quotidiano contraltare , nella figura paterna (made in Conegliano Veneto) nell'emersione del difetto, della cifra stilistica intelleggibile, del conto economico, delle rese, degli ammortamenti, dei costi variabili produttivi, della correttezza tecnica, dei riferimenti organolettici degli standard , delle composizioni tabellari di polifenoli, acidi organici, gradazioni alcooliche , trattamenti , così come la necessità quasi fisiologica di affrontare il bicchiere con analisi sensoriali codificate e secondo parametri ufficiali ed "ufficiabili" , ... il contesto quasi "famigliare" , quindi, con cui il bravissimo Jacopo ha raccontato, lasciando trasparire un pò di sgomento oltrechè di imbarazzo (dove , invece, capisco benissimo la propensione a definirla "esperienza costruttiva") , più che trasferirmi nostalgia mi ha trasferito tutto il pregresso di lotta nell'affrancarmi da quanto più costituzionalmente relegato al tentativo di oggettivizzare qualcosa di non oggettivizzabile, ma detto dal profondo del cuore... fino a scegliermi sul web un nick fra i più scemi che conosco ma che rende bene l'idea di come , son convinto, dovrebbe essere il vero approccio al vino ...
RispondiLuca Risso
circa 10 anni fa - LinkMi stupisce che in tanto sforzo di oggettività non notino il baco di un campione statistico sbilanciato tutto sul Trentino Aldo Adige. In una situazione come questa qualunque campione poco omogeneo viene penalizzato, fosse anche il PN migliore del mondo.
RispondiPatrick Uccelli
circa 10 anni fa - LinkMi piace il filo rosso che collega le varie tematiche... Da altoatesino (forse un po' atipico) non mi sorprende questa affermazione: "...se il trend dovesse rimanere invariato a partire dall’anno prossimo il rischio è che la manifestazione da nazionale diventi (solo) altoatesina. ", che secondo colpisce nel segno e gli organizzatori dovranno, nonostante tutto, tenerne conto. Io in ogni caso, pur rispettando il sistema di degustazione di Armin, preferisco il sistema PAR. http://www.parsystem.de/
Rispondiarnaldo
circa 10 anni fa - LinkSoprattutto tu Jacopo che essendo amante dei vini bio ambedue....sei abbastanza abbonato alle volatili e a vari difettucci qua' e la'.....
RispondiJacopo Cossater
circa 10 anni fa - LinkMah. A dire la verità sto diventando sempre più intransigente sul tema, faticando assai a godere di vini che sono evidentemente nati male, per essere gentili. La volatile però, quando non è eccessiva, quando non disturba all'olfatto ed anzi aiuta a distendere un maggior numero di profumi, quando in bocca non asciuga, sopratutto se supportata da una materia all'altezza, trovo non solo che non sia assolutamente un "difettuccio" ma che sia addirittura un pregio, figurati.
RispondiEmanuele
circa 10 anni fa - LinkUna bella lettura. Veramente.
RispondiOttavia
circa 10 anni fa - LinkBuonasera, quest'anno ho deciso di inviare il mio pinot nero pur condividendo tutto ciò che ho letto in questo post. Chi non e'altoatesino difficilmente riesce a presentare un'annata tanto giovane come quella richiesta. Una delle nostre migliori annate, premiata con i tre bicchieri, aveva il bret, inoltre non considero tipico il legno che solitamente sento nei pinot neri italiani, quindi parto già svantaggiata. Non mi stupisce che diventerà sempre di più un concorso locale.
RispondiFabio F.
circa 10 anni fa - LinkCondivido molti dei pareri, sia nel post che in quelli dei commenti. Ho sempre ammirato la manifestazione, il cui concorso annesso, ha senza dubbio un "piglio" più tecnico che edonistico. Concordo che il futuro di questa manifestazione è a tutt'oggi in direzione Alto Adige (per quanto sia scritto concorso nazionale, si chiamano pursempre giornate alto atesine del Pinot Nero). Sul fatto che alcuni produttori non mandino puù i campioni riguarda più il fatto che gli stessi, produconi vini "lontano dagli standard". Ovvio, non vuol dire che siano migliori o peggiori ma come riportato nel sito - Secondo il winemaker piemontese Donato Lanati, "la qualità di un buon Pinot nero consiste nei tannini e nei profumi perché gli antociani sono in misura piuttosto contenuta. In Italia si trovano molti Pinot neri snaturati, perché si pretende abbiano un sapore concentrato, mentre ciò che rende i migliori Pinot neri dei vini inimitabili sono la finezza dei profumi di cassis e lampone, e l'eleganza dei tannini. Solo in alcune zone dell'Alto Adige si può paragonarlo a quello della Borgogna". - Circa i difetti, sono sempre più convinto che sia una questione di sensibilità come però sono altresì convinto che una volatile alta (e qui definirla semplicemente alta o bassa non fa altro che confondere, direi che secondo me sopra gli 0,80 potrebbe cominciare ad essere una soglia percettibile anche ai meno esperti) su un vino dai profumi fini tipo Pinot Nero sia un difetto, tanto quanto il Brett. Su altri vini magari "aumenta" la complessità anche se tendenzialmente i sentori di gomma bruciata (voltatile) e note animali (sudore di cavallo, fiori morti, e acqua ragia) non siano esattamente descrittori che ricerco personalmente in un vino.
Rispondigianni cantele
circa 10 anni fa - LinkConsiderando la latitudine alla quale lavoro, in pianura per giunta, posso trattare l'argomento Pinot Nero solo da tecnico consumatore. Se posso trovare punti di concordanza sulla volatile, che a mio modesto parere può risultare non sostenibile già a livelli superiori a 0,7 g/litro, sono assolutamente convinto che quando il naso è in grado di percepire i grandi casini che il Brett è in grado di fare, allora parliamo di difetto, punto e basta. Continuare a sostenere che tutta una serie di descrittori sgradevoli, già menzionati in altro post, possano essere in qualche modo correlati ad una presunta tipicità o complessità olfattiva è quanto meno bizzarro. Tanto più che la mia personale esperienza mi porta a dire che ci sono varietà particolarmente predisposte che, a parità di condizioni di affinamento (e quindi di mano tecnica) esprimono il difetto con estrema probabilità rispetto ad altre. Ovvio che mi riferisco al negroamaro, con il quale ho una certa consuetudine, ma ho potuto constatare questa mancanza di linearità anche il occasione di un giro sull'Etna. In una cantina dove mi sarei aspettato di degustare (da vasca) vini particolarmente "difettati", a causa di condizioni igieniche approssimative, sono rimasto sorpreso che tutti gli assaggi di Nerello Mascalese fossero puliti o con Brett appena percepibile. Gli assaggi di Nerello Cappuccio erano terribilmente influenzati da altissimi livelli di fenoli volatili. Mi piacerebbe in proposito conferme o smentite da parte di colleghi siciliani. Insomma, io continuo la mia personale e maniacale battaglia contro questo lievito, e condivido le posizioni dei produttori dell'Alto Adige che puntano alla sua assenza. Facendo un paragone per sparigliare un po', se un ristoratore ci serve uno stupendo piatto di pasta di altissima qualità, di pastaio sul quale mettiamo la mano sul fuoco, e la pasta è scotta, a chi diamo la colpa?..........
RispondiZero
circa 10 anni fa - LinkQuanto sono soddisfacenti questo tipo di post, complimenti all'autore
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