Cosa c’è davvero in un bicchiere di Rum 2.0?

di Thomas Pennazzi

Gli appassionati di rum si stanno scatenando: da quando il blogger danese Johnny Drejer – di cui vi ho parlato in un precedente articolo – ha aperto il vaso di Pandora, altri conoscitori si sono messi nella sua scia e hanno cominciato a verificare con gli strumenti della chimica analitica se ciò che amano bere corrisponde a quello che immaginano ci sia nella bottiglia. Ne stanno saltando fuori di tutti i colori.

Uno degli autorevoli esperti francesi di rum, Cyril di DuRhum.com, ha fatto analizzare alcuni tra i rum premium più piacioni e diffusi sul mercato per il loro contenuto non più soltanto di zucchero, ma di sostanze estranee. Ve lo racconto, perché vi facciate un’idea di cos’è il rum 2.0 (definizione sua).

Bene, questi distillati che il consumatore crede siano rum, nascono a tavolino negli uffici marketing delle grandi multinazionali prima ancora che nelle distillerie e nei magazzini di invecchiamento, e sono costruiti intorno alle aspettative del mercato. Non importa dove siano prodotti.

Da un rum 2.0 ci si aspetta che sia un prodotto premium, fatto in romanzeschi piccoli quantitativi e con una bella storia alle spalle da raccontare in etichetta, generalmente di fantasia o lontana nel tempo. Avrà una eccellente visibilità sugli scaffali delle enoteche e sulle pagine patinate dei magazine, sarà di beva facile, dolce ma muscoloso, e di sicuro il protagonista di eventi creati ad arte in locali glamour-osi delle capitali mondiali. Avete notato cosa manca?

Ve lo suggerisco io: la distilleria e l’esperienza ronera di un produttore di solida tradizione. Non ce n’è traccia, quindi si tratta di prodotti senz’anima e volto ma dalla grande capacità di penetrazione del mercato, sostenuti dal massiccio arsenale degli uffici marketing delle corazzate del beverage e dagli specialisti in brand-designing. Più che con gli alambicchi qui abbiamo a che fare con le grisaglie ed i grafici delle quotazioni azionarie. In sostanza voi avete sete di rum, ma loro di soldi facili.

Ma c’è molto di più: questi prodotti disegnati a misura di consumatore di massa pretenzioso, sono in realtà surrogati di rum: cioè non semplici distillati di canna o melasse, a cui l’invecchiamento dona il carattere, ma prodotti in gigantesche distillerie industriali,  e ‘conciati’ per ottenerne le caratteristiche volute alla svelta. Complici l’assenza di regole nei Paesi di produzione, e le norme (volutamente?) ambigue e disattese della UE (Reg. CE 110/2008).

E in etichetta? Il nulla.

Lo zucchero, vi dicevo, sembra l’aggiunta più ovvia ma si usano anche zuccheri invertiti dal maggiore potere dolcificante a pari peso, agenti aromatizzanti naturali ed artificiali di ogni sorta, dalle spezie alla vaniglia o suoi analoghi sintetici, gli estratti di quercia, gli esteri sintetici, chi più ne ha ne metta, e perfino la fata Glicerina, uscita dal laboratorio chimico. Il tutto assomiglia più alla creazione di un profumo moderno che ad una cantina col suo alambicco e le tante botti.

Una delle cose che si guardano in un distillato, ma anche nel vino, i sommelier lo sanno meglio di me, sono gli archi viscosi che piangono dalle pareti del bicchiere una volta ruotato il contenuto, segno delle trasformazioni del liquido durante i lunghi anni di invecchiamento.

Ecco: la glicerina, dolce, untuosa e maledettamente “naturale”, serve allo scopo meravigliosamente: il vostro distillato 2.0 ben colorato, morbido di zuccheri, aromatizzato con vanillina ed altro, conciato con estratti di legno, corposo e vellutato per questa aggiunta magica, ingannerà anche il più scafato degli assaggiatori, facendogli credere di gustare un rum fantastico, concentrato dai decenni passati in qualche angolo dei tropici.

Tutte balle. Di fatto bevete uno splendido surrogato di rum, nato sì dalla canna, ma bianco, bruciante e probabilmente ben rettificato in alambicco a colonne multiple, che sulla vostra etichetta riporterà solo la parolina a tre lettere ed un roboante (falso) invecchiamento: tutto ciò che d’altro vi è stato aggiunto dopo si tace bellamente, complice la totale assenza di regole e controlli. Pirateria pura. Ci siete cascati anche voi, vero?

Ma questo può fare molto male al rum genuino e, soprattutto, ai distillatori onesti, che non hanno la forza per tenere il mercato davanti a questi muscolosi cugini dopati. Il danno è già fatto perché il pubblico generale crede ormai che il rum abbia il gusto di questi marchi di ‘lusso di massa’ e tenderà a non apprezzare più il rum autentico, avendone dimenticato le caratteristiche peculiari ed il sapore: un alambicco pot-still e qualche anno di botte caraibica ci restituiscono ottimi rum, ma non sciroppi ‘vitaminizzati’.

Vi domanderete: ma questi distillati possono ancora chiamarsi rum? Per la legge europea (in teoria) no. Si tratta di altro. La chiarezza è arrivata grazie a questo esperto degustatore e divulgatore francese che ha sollevato il velo, facendo analizzare parecchi rum per i loro possibili contenuti atipici.

A scanso di equivoci chiariamo che questi prodotti premium e super-premium dalle eleganti bottiglie piacciono molto al pubblico indistinto, quindi sono attraenti in termini organolettici, ma hanno molto poco a che fare con il rum che ormai possiamo chiamare tradizionale. Sono solo bevande aromatizzate a base di un probabilmente mediocre rum, alquanto rettificato per scacciarne gli aromi indesiderati, forse invecchiate qualche luna; tanti anni fa roba simile più modesta veniva fatta anche da noi in Italia con alcool neutri, caramello, aromi, e soprattutto senza rum, ma si aveva l’onestà di chiamarla “di fantasia”. Almeno il consumatore non era frodato, nemmeno nel prezzo.

Quindi se questi benemeriti degustatori hanno cominciato a vederci chiaro è solo per amore del vero distillato e non per fare a pezzi le varie multinazionali dell’alcool o un determinato marchio best-seller.

Lo scopo è far intendere ai potenziali appassionati degli spiriti fini quale mostro è diventato oggi il rum, come si inganna l’ingenuo e sedicente conoscitore, e come si può ancora bere bene, sapendo dove andare a parare. Ciò è importante per aprire gli occhi al consumatore, all’enotecaro che sa ripetere solo le note dei pifferai magici del marketing, e anche all’industria del rum stessa: non tutti gli opinion leader sono ‘marchettari’, e c’è una quota di clienti che ama davvero il rum e non i sogni preconfezionati dalla multinazionale ‘X’. Uno dei più grandi distillati al mondo non merita davvero questo trattamento mercificante da merendina: e se guardate bene, questi ‘rum’ si trovano sempre più spesso al supermercato.

I produttori di whisky hanno capito da un pezzo i guai di questa strategia che mira al valore percepito più che al valore reale del prodotto, tenendosene alla larga con loro supremo vantaggio.

Sarebbe bello sentire al riguardo la voce autorevole dei nostri imbottigliatori indipendenti: non dimentichiamo che se l’Italia ha avuto grandi importatori di whisky, questi hanno anche fatto conoscere rum meravigliosi ad un pubblico attento. Facciamo giusto qualche nome: vi dicono qualcosa Samaroli, Mongiardino e Luca Gargano?

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Thomas Pennazzi

Nato tra i granoturchi della Padania, gli scorre un po’ di birra nelle vene; pertanto fatica a ragionare di vino, che divide nelle due elementari categorie di potabile e non. In compenso si è dedicato fin da giovane al suo spirito (il cognac), e per qualche anno ne ha scritto in rete sotto pseudonimo.

9 Commenti

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Morrisoff

circa 9 anni fa - Link

Già letto sullo Spirito dei Tempi ad Aprile corrente anno... mi sembra molto simile.

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Morrisoff

circa 9 anni fa - Link

Articolo molto simile a quello pubblicato su Spirito dei Tempi ad Aprile!

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Thomas Pennazzi

circa 9 anni fa - Link

Caro Morrisoff, lei mi pare un lettore invero un po' distratto... l'articolo "molto simile" è comparso su "Spirito dei Tempi" in data 25 luglio, per la precisione. Che io e Francesco, peraltro buon amico, dibattiamo gli stessi temi, è cosa nota da anni. Che abbiamo le stesse fonti, nemmeno quello è un segreto. Ma se l'idea era di ventilare che il mio contributo odierno è un plagio, le suggerisco di rileggere entrambi gli articoli. Il tema è quello, ed ognuno di noi lo riprende secondo la sua sensibilità e la voglia di fare divulgazione (nel mio piccolo per un pubblico generale, lui per una platea esperta). Spero di averla tranquillizzata.

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sergio

circa 9 anni fa - Link

Condivido, io non ne avevo conoscenza. E, comunque, molti manuali universitari, ad esempio, trattano la stessa materia, gli stessi argomenti: si dovrebbe adottare in tutte le università lo stesso manuale? Quello stampato prima? Già il modo di esporre la materia(si accenna al taglio più divulgativo) può giustificare la presenza di più opere, articoli, ecc... Detto questo, il post è molto interessante perché ci fa...riflettere.E su molti punti. Mi limito a dire che alcuni concetti si possono applicare anche ai semplici alcolici, vino e birra. Ma non solo, si possono applicare, alcuni concetti, ...a tutti(o quasi) i cibi prodotti(e manipolati) dall'uomo. Tra CHI produce e il CONSUMATORE c'è 1 il Marketing(che sta sempre e comunque con i produttori) 2 io vorrei degli ESPERTI al SERVIZIO dei consumatori, competenti, seri ed onesti. Che valorizzino i produttori meritevoli, ma che stia "sempre" dalla parte dei consumatori. Non è facile. Il consumatore, se pur a fatica, deve sviluppare, negli anni, una sua capacità personale di analisi critica dei prodotti alimentari. Non è facile. . Ma non ci sono soluzioni facili.

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Montosoli

circa 9 anni fa - Link

Bene...Thomas; Perche' allora non pubblicare una lista dei Rum artigiani che non hanno tutte queste sofisticazioni chimiche ?

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cla

circa 9 anni fa - Link

http://www.drecon.dk/index.php/17-list-of-rum-measured Che soddisfazione quando ho letto che uno dei rum più pubblicizzati (e che a una degustazione ho avuto il coraggio di dire che non mi piaceva perchè era troppo dolce) ha una valanga di zucchero aggiunto

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Andrea'S

circa 9 anni fa - Link

Che delusione... Nonostante la mancanza di regole, se ad esempio in etichetta sono riportati gli anni di invecchiamento e cio' non corrisponde al vero, non si tratta di una vera e propria FRODE?!?

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Thomas Pennazzi

circa 9 anni fa - Link

Se lei pensa al molto noto rum con la cifra '23', si sta sbagliando. Una volta c'era scritto 'años' ora invece la parolina magica è sparita da tempo. In ogni caso si trattava di invecchiamenti (in parte) con metodo 'solera' e dove il numerino indicava l'età massima di invecchiamento (probabilmente di una piccola frazione del distillato complessivo). La frode la fanno i piccoli, non le multinazionali che sul piano normativo sono agguerritissime. Piuttosto direi che si tratta di credulità popolare! Al contrario per whisky e cognac l'età di invecchiamento garantita dalle denominazioni di legge si intende minima. Ma non mi stancherò mai di ripetere che l'età del distillato da sola non è indice di qualità superiore. Vecchio = buono è un'espressione che seduce il pubblico ma di fatto è del tutto ingannevole, presa come unico parametro. 'Sapevatelo!'.

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Denis

circa 9 anni fa - Link

Bravo Thomas! Ci sono rum vecchi assolutamente anonimi e rhum che invecchiano 3 anni (Rhum Rhum Blanc PMG per dirne uno...) fantastici! Secondo me però l'equazione non è direttamente Vecchio = Buono. C'è un passaggio in più. Vecchio = Costoso (in genere vero) Costoso = Buono (e qui casca l'asino)

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